Mina torna ancora nell’album Gassa d’Amante, con canzoni di questo tempo, con una voce senza tempo.
Tutti siamo ammirati dalla capacità di Mina di cantare ad 84 anni come se il tempo per lei non fosse passato, ma la cosa più straordinaria è che la sua voce continua a crescere in intensità, colori, spessori, estensioni, invenzioni di textures, dalla più liscia alla più granulosa, uso espressivo di pause e ritmi, in un fantastico caleidoscopio di possibilità, quasi alludendo a voci di diverse età anagrafiche, come se lei potesse abbracciare tutto il suo percorso e averne mantenuto profondamente la consapevolezza, in un contatto continuo con se stessa, e senza badare troppo all’esterno.
Credo che questo sia uno dei sensi di questo nuovo album, la volontà di essere classica, seguire un suo modello ideale di equilibrio, armonia e bellezza, eleganza, sobrietà. Anche nell’album Gassa d’Amante Mina mostra una continua ricerca delle proprie infinite voci e delle loro sottigliezze, ma senza la ricerca del nuovo e del sorprendente che l’ipertrofia dei segnali sonoro-musicali della rete e il consumo incessante sempre richiedono. Lei non si occupa del “nuovo” dell’esterno, ma approfondisce tutto il “nuovo” possibile dentro di sé.
Questa è dunque la stessa Mina che, con un coraggio da tigre, decise 46 anni fa di ritirarsi improvvisamente dalle scene, preferendo dedicarsi esclusivamente alla musica senza dover gestire le pressioni del mondo dello spettacolo, una scelta che oggi trova ancora una volta un significato autentico nell’ascolto della sua crescita interpretativa.
È come se, attraverso l’intimità dei propri spazi, Mina abbia potuto ascoltare sé stessa nel suono e nella musica, in controtendenza rispetto a ciò che accade ormai da tempo nel mercato discografico, in cui la musica è sempre più dipendente dall’immagine corporea esteriore continuamente esibita. Al contrario l’immagine esterna di Mina si è trasformata nel tempo in icona virtuale, proprio perché al suono della sua voce corrisponde un’assenza assoluta della sua immagine reale.
Ma c’è qualcosa di più del timbro che conosciamo, o della varietà delle soluzioni sonore; con Mina bisogna parlare anche di interpretazione, e a questo scopo facciamo un piccolo zoom su un pezzo dell’album Gassa d’Amante appena uscito.
NON SMETTO DI ASPETTARTI
Fabio Concato compose e pubblicò Non smetto di aspettarti nel 2012, dopo 11 anni di un suo stop creativo. Questa canzone fu esclusa all’ultimo momento dal Festival di Sanremo del 2012, inaspettatamente, con grande dispiacere di Concato.
Mina oggi ribalta quel giudizio ponendo Non smetto di aspettarti in un posto speciale, il primo, nel suo nuovo album. È bello osservare la libertà di Mina nel privilegiare i brani che lei sente più vicini, al di là dei successi o delle mode.
All’inizio Non smetto di aspettarti sembra solo un brano sentimentale: “…mi manca quando ridi fino alle lacrime…”. Le parole sembrano rivelare un profondo desiderio e una calda nostalgia per qualcuno che è assente. Mina gioca con la sua voce in questa prima parte su diversi piani, ogni frase ha un suono e un carattere diverso, ad ogni pausa una luce differente, e l’espressione vocale si muove come onde, ora contenute, ora più ricche di armonici, come se questa assenza dell’altra persona fosse un “andirivieni” nell’entrare dentro di sé e aspettare qualcuno fuori di sé.
Già in questa fase vediamo come il canto per Mina è vera interpretazione, cioè la capacità di rendere non solo la bellezza, ma i sensi più profondi delle parole attraverso le vibrazioni “pensate” della voce.
Nella seconda parte arriva un’illuminazione sorprendente nel bellissimo testo di Fabio Concato: scopriamo che questa persona assente e che manca, in realtà non esiste, (“…sarà che non esisti e allora io ti invento…”). Il tema dell’attesa di qualcuno che non esiste ancora era già stato trattato da Björk e Howard Bernstein nel 1995 (nel pezzo “I miss you”) ma mentre in quel testo alla fine c’è una speranza che arriva dall’esterno (“So già che arriverai quando smetterò di aspettarti”), nel testo di Concato, più struggente, quasi tragico, c’è un improvviso cambio, dall’attesa dell’arrivo dall’esterno a una riflessione verso di sé, con la consapevolezza che la persona desiderata non esiste se non dentro i propri pensieri.
Questa verità improvvisa si connette con il canto (“ti immagino e ti canto e così mi pare che ci sei, e se non posso amare così tanto e farmi amare io a cosa servirei””). La canzone arriva qui a un climax di intensità in cui l’estensione della voce di Mina supera confini inimmaginabili, il suo timbro si assottiglia come se rivelasse la bambina dentro di lei (e dentro la protagonista del brano).
Dopo questa potentissima rivelazione la protagonista della storia, ormai cosciente ma spaesata, si rivolge inutilmente ancora a questo essere inesistente (“mi senti, non so come cercarti, non so a chi domandare, non smetto di aspettarti”). Mina, cogliendo la profondità di questo momento, si esprime improvvisamente con un sussurrato quasi esitante, veicolando in modo molto intenso l’incertezza e la fragilità di una persona persa nella chimera dei suoi pensieri. Dando senso sonoro a questi tre momenti del testo Mina reinterpreta non solo il testo, ma reinventa la forma stessa della canzone rendendo giustizia piena alle parole con “vibrazioni” di luce a illuminare gli spazi di una storia di solitudine, ma piena di fantasie.
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