“Mi era impossibile mettermi davanti a un foglio bianco e parlare di me, ignorando tutto. Era impossibile in un momento del genere non pensare alla strage, al genocidio a Gaza”. Francesco Sacco vede la musica come possibilità di espressione, un intento ben più alto di qualsiasi altro “mero esercizio di stile”. Presenta così, in anteprima su THR Roma il videoclip di Ti somiglia ma non sei tu, un testo di denuncia camuffato da falso tormentone per la melodia pop spensierata e orecchiabile. Lo definisce un “cavallo di Troia”, quasi a camuffare i toni di protesta con note coinvolgenti, per far arrivare le parole a tutti. Anche a chi, a primo impatto, si rifiuta di ascoltarle.
Nel videoclip, diretto da Antonietta Elia, si alternano litigi da spiaggia, balletti di TikTok e chiacchiere da ombrellone, mentre Sacco canta del conflitto in Palestina e dei media che, a suo dire, sconvolgono la narrazione a loro piacimento. “Da persona nata nella parte fortunata del mondo, da artista che ha in mano una sorta di megafono, sento una responsabilità anche nei confronti della scena e del pubblico”, spiega Francesco Sacco. “Quando l’arte smette di parlare di temi urgenti, quando smette di essere specchio del presente, ci troviamo davanti a qualcosa che rischia di diventare mero esercizio di stile”.
Perché in un periodo storico drammatico, in cui ogni presa di posizione politica può costituire un rischio effettivo per la propria carriera e per le opportunità future (si vedano i casi di Dargen D’Amico e Ghali a Sanremo o di quest’ultimo sul palco di Radio Italia Live), è fondamentale farsi carico del proprio privilegio, per distaccarsi da una discografia – per citare Boris – La serie – , fatta perlopiù di “musichette mentre fuori c’è la morte”.
Nel brano parla di distorsione delle notizie da parte dei media e dell’editoria. Quanto è importante esprimersi esplicitamente come artisti, allora?
Francesco Sacco: Per me è fondamentale. Quando l’arte smette di parlare di temi urgenti, quando smette di essere specchio del presente, ci troviamo davanti a qualcosa che rischia di diventare mero esercizio di stile. Per il brano ci ha registrati Mattia Cominotto, lo storico autore dei Meganoidi, che di recente mi ha detto: “Con tutto quello che sta succedendo nel mondo, trovo strano che nella vostra generazione di cantautori ad essere incazzati siate solo in 4-5”.
Il grosso della produzione continua a focalizzarsi su temi interiori, su discorsi da cameretta. Che per carità, vanno benissimo, ma per quanto mi riguarda era impossibile in un momento del genere non pensare alla strage, al genocidio a Gaza.
Avrà visto il recente caso di censura ai danni di Ghali dopo essersi esposto politicamente. Esprimersi pubblicamente è ora più che mai un rischio per la propria carriera?
F. S: È una cosa che spaventa molto la discografia e i canali di informazione. Parliamo di tempi in cui i social funzionano a trend: una cosa è valida per una settimana o per un giorno, ma non è detto che lo sia per il giorno dopo. Ora mi sembra che l’opinione pubblica abbia fatto una piccola inversione di rotta: se tu dicevi qualcosa su Gaza in novembre e le pubblicavi su Instagram, il tuo post riceveva forse un like. Ma non tanto perché le persone non fossero d’accordo, quanto perché l’algoritmo decideva di censurare quel genere di contenuti.
Lo stesso avviene nell’industria musicale?
F. S: La discografia come il cinema sono industrie. Prendere posizioni forti che a qualcuno possono non andare bene spaventa, però a un certo punto va fatto, altrimenti ripeto, ci troviamo davanti a un esercizio di stile vuoto. In America i fan stanno chiedendo alle pop star di prendere posizione su questo tema. Ed è un segnale fortissimo che sia il pubblico a dire “ok Taylor Swift, anche se nella tua ultima canzone parli di tutt’altro, io vedo in te un modello, mi identifico nel tuo percorso artistico. Ho bisogno che tu prenda posizione su questa cosa”. Anche da parte del pubblico c’è bisogno che l’arte si occupi di queste cose.
Antonietta, a proposito di prese di posizione: da chi nasce l’idea del videoclip di Ti somiglia ma non sei tu?
Antonietta Elia: Francesco mi ha spiegato il testo e l’obiettivo che aveva nel comunicare tutto quello che ha precedentemente detto. Abbiamo collaborato assieme cercando di creare e di raccontare una storia all’interno di un videoclip, per quanto si possa tentare di farlo solo tramite delle immagini. Allora abbiamo pensato a quest’idea anche ironica, perché non siamo nessuno per poter giudicare come si comporta la massa.
I personaggi però sembrano un po’ una caricatura della società del consumo. Non è così?
A. E: Certo. Io credo che siamo in un periodo storico in cui siamo abituati alla bellezza in maniera troppo veloce e di conseguenza, saturi di queste emozioni, non ci occupiamo mai dei confini. Guardiamo solo la nostra bolla e fingiamo che ci interessi quello che accade fuori, ma in realtà viviamo dei sensi di colpa da salotto. Questa è la sintesi di quello che volevamo raccontare anche tramite l’immagine. Per farlo abbiamo scelto la spiaggia, l’ozio quotidiano di una domenica qualunque, in cui emergono poi i demoni di ognuno. Vediamo delle persone litigare in spiaggia e intanto mangiamo le patatine, senza minimamente domandarci perché c’è tensione. Non ci stupiamo neanche delle tensioni dei nostri vicini di casa, come pensiamo di poterci stupire di quello che accade dall’altra parte del mondo? Questo il plot, ripreso sempre con un po’ di ironia, perché io non mi sento in grado di poter essere un giudice o di fare della satira su niente e nessuno.
F. S: Sottoscrivo tutto (ride, ndr). Avevamo già lavorato insieme, ma questa è stata davvero una bella esperienza, forse la più cambiata dall’idea iniziale. All’inizio avevo immaginato una partita di palla prigioniera, con una palla fatta a forma di mondo. Poi, lavorando con Anto, l’incontro delle nostre sensibilità ci ha portati su territori diversi, cercando di dare valore a questa cifra legata all’estetica da tormentone estivo ma completamente spappolata, mangiata e digerita.
Questa dissonanza netta e volontaria tra testo, melodia e video è proprio ciò che caratterizza il pezzo.
F. S: Mi piace definire il videoclip e l’intenzione del brano un “cavallo di Troia”: ti ritrovi ad ascoltare un testo forte su una base che in realtà porta da un’altra parte. Questo crea un piccolo shock all’ascolto, e il video fa visualizzare perfettamente questa intenzione: ci suggerisce un ambiente accogliente, un’idea di relax, di leisure, di divertimento, di tempo libero, in cui pian piano emergono, come diceva Antonietta, una serie di demoni. Tante cose che non quadrano all’interno di questo tableau vivant di spiaggia, che ci fanno riflettere sul rapporto che abbiamo con l’altro.
È stato difficile ricreare questo “shock” a livello di figure e immagini?
A. E: Durante il set ho cercato di ricreare una sorta di surrealismo teatrale. Non è stato difficile, anzi, è venuto tutto abbastanza naturale. I personaggi della storia si sono subito immedesimati nel recitare quel ruolo grottesco.
F. S: Io sono sempre il più preoccupato di tutti i set, ho sempre paura che ci stiamo perdendo qualcosa. Invece in questo caso no. Mi ricordo di Lucrezia, la fotografa che ha scattato la cover, che continuava a dirmi: “c’è chi ci deve essere, le cose vanno come devono andare”. E così è stato, anche per una serie di incontri fortunati.
Quali?
F. S: Le due signore anziane erano due passanti che abbiamo tirato in mezzo. Abbiamo detto loro “stiamo girando un videoclip. Vi va di posare un secondo per noi?”, gli abbiamo spiegato quello che stava avvenendo e si sono immediatamente calate con estrema facilità in questa dimensione vagamente distopica e un pochino sospesa, come se da un momento all’altro dovesse succedere qualcosa di non bello.
Prima ha accennato ad un mappamondo con cui giocare a palla prigioniera. Il gioco della palla prigioniera non c’è nel videoclip, ma il mappamondo rimane la figura preponderante della narrazione. Che cosa vuole rappresentare?
A. E: È un’immagine simbolica che ognuno interpreta come vuole: è un po’ l’origine di tutta la scrittura del clip e del brano. Ci siamo arrivati cercando di trovare un’immagine che potesse riassumere il succo di ciò che volevamo dire. È come se fosse l’inconscio che si rivela. Sa, io sono una credente dell’essere umano: nonostante le sue cattiverie e imperfezioni, penso che inconsciamente conosciamo la verità, i nostri sensi di colpa, le nostre paure, i nostri demoni, e prima o poi ci facciamo i conti. Il contenitore del mondo può essere interpretato simbolicamente con mille cose, anche con i social, che ci rendono tutti connessi ma tutti isolati. L’esplosione di questo mappamondo è l’auspicio che ad un certo punto questa nevrosi collettiva finirà. O almeno me lo auguro.
F. S: Essendo un oggetto di utilizzo comune che tutti bene o male abbiamo avuto da bambini, ci riporta un po’ a questa dimensione di leggerezza, quasi puerile, di compiere il male. “La banalità del male”, per dirlo come Hannah Arendt, l’essere spettatori di una carneficina vista dai nostri occhi occidentali borghesi, con il culo al caldo. Nella nostra malvagità c’è una dimensione infantile, di leggerezza, che non intende davvero fare del male, ma di fatto ne fa.
Che si traduce, ancora una volta, nella mancanza di partecipazione attiva degli artisti.
F. S: Assolutamente sì. C’è una forma di non responsabilità quasi infantile dietro al nostro non fare niente, che ci rende volontariamente complici di quello che sta succedendo. Si spera che non si parli più di bruttezze e di genocidi con lo spritz in mano, ma che ci sia effettivamente una spinta collettiva verso una sorta di cambiamento. Altrimenti, citando il pezzo, rimarremo fermi sotto i nostri ombrelloni, ad osservare quello che accade immersi nell’indifferenza.
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