Così sono (se vi pare), per fare un rimando a Pirandello. Oppure, spaziando tra i linguaggi d’Italia, Assamanù, “in questa maniera”, riassumendo tutto un concetto in una sola parola. Setak riprende un aspetto riconducibile a tutti con il mezzo individuale a lui più congeniale: il dialetto. “Accostiamo il dialetto a una musica estremamente territoriale, che parla solo alle persone che lo capiscono. Ma io ho un’idea della musica che è universale, deve arrivare a prescindere. Nel mio caso è la musica che si porta appresso il dialetto. Non viceversa”.
Una necessità di far parlare le proprie origini – di radici intese come pretesto per costruire un futuro – la sua, nata dall’ascolto, ad appena dieci anni di Crêuza de mä, inconsapevole di chi la cantasse e persino di cosa dicesse. Perché Setak è esempio di una musica folk che riesce ad arrivare e a propagarsi ben oltre i limiti regionali e dialettali. Giunto al culmine di una trilogia – composta dai progetti d’infanzia (Blusanza) e adolescenza (Alestalè) – esplora la propria maturità anagrafica, e di rimando anche compositiva. Un’anelata presa di coscienza personale che inevitabilmente si fa artistica, fino alla consapevolezza che “io sono così”, appunto. Assamanù.
Assamanù racconta la sua individualità e le sue radici nel modo più identitario per lei: cantando in dialetto.
Sono nato e cresciuto in Abruzzo, sono venuto a Roma una quindicina d’anni fa. Adesso siamo quasi alla pari come periodo di esistenza, eppure queste radici rimangono sempre molto molto profonde in me, da preservare. Non riesco a immaginare un futuro senza le radici.
Cosa costituiscono per lei? Sono un po’ il punto di partenza di tutto?
Sono l’aspetto che ci differenzia. In senso di condivisione però, non di separazione. È grazie alle nostre radici che possiamo rivendicare un’identità, esaltare la diversità soprattutto in questo periodo storico in cui ci vogliono – soprattutto artisticamente – tutti uguali.
Le necessità discografiche vigenti portano inevitabilmente all’omologazione. Preservare la propria unicità allora è un po’ anche un atto politico?
È assolutamente un atto politico. Ed è anche molto faticoso. Quando fai qualcosa del genere, automaticamente si attiva una certa resistenza. Spesso, in passato – adesso molto meno, perché fortunatamente le cose stanno andando bene – ho attraversato dei momenti veramente tosti che non auguro a nessuno. Però, la solitudine è fondamentale per il percorso di un artista vero.
La spinta propulsiva di un artista non può essere quella di essere uguale agli altri, c’è qualcosa che non va altrimenti. Preservare la propria unicità è faticoso fisicamente, ma l’identità a livello artistico non ha prezzo, non ci sono numeri che tengano.
La solitudine sa essere anche motore per la scrittura e per la composizione, dunque?
Assolutamente sì. Certe volte, quando sei veramente solo è quasi come se si confermasse l’idea che la strada è giusta. Potrò sembrare incoerente, però al giorno d’oggi, quando non sanno catalogarti o non riescono a inserirti in un sistema, nella maggior parte dei casi significa che sei nella strada giusta.
Sente che alla fine di questa solitudine la strada per lei era quella giusta?
È giusta. Riascoltare le cose che hai fatto senza pentirti è un lusso che non tutti si possono concedere. Quando vendi l’anima al diavolo c’è un prezzo altissimo da pagare a livello emotivo. Soprattutto se hai un cuore vero.
Sono cresciuto con dei parametri che non si usano più, però la mia formazione emotiva si basava su altro. Vent’anni fa, quando ho cominciato a suonare, se ricordavi qualcuno, il discografico ti diceva “occhio che qua sembri un po’ Tizio e Caio”. Adesso è il contrario: è un problema se non assomigli a nessun altro. È ovviamente il capitalismo che sta inglobando qualsiasi cosa, e sta diventando evanescente ogni cosa. Anche il dolore.
A cosa si riferisce?
Su Instagram passiamo in due secondi da bambini che muoiono a cazzate di influencer. Sta diventando sempre più evanescente qualsiasi cosa.
In quest’ottica è anche più difficile fare arte?
Per me fare arte vuol dire andare nelle tenebre. Sono più affascinato dal buio che dalla luce, artisticamente. Dovremmo avere quasi il dovere di spingerci oltre e di osare. Preferirei smettere, se dovessi iniziare a lavorare su commissione. Non sarei credibile.
Questa è l’ultima parte di una trilogia che rappresenta le tre fasi vitali. La maturità di cui parla in questo capitolo sente di averla raggiunta anche a livello compositivo?
La maturità personale è andata di pari passo con la maturità di scrittura. È difficile separare le cose. Mi piace pensare che sia così, poi non lo so se è vero. Questo lo lascio dire agli altri.
In questo ultimo periodo la musica in dialetto è una presenza fissa in classifica. Parliamo di brani trap, rap o pop, decisamente diversi dal suo genere. Ma che spiegazione dà a questo cambio di rotta?
Sembra passata una vita, ma quando ho cominciato, quando ho fatto il mio primo disco, le assicuro che scrivere in dialetto era un’operazione veramente fuori di testa. Soprattutto farlo nel mio, che è un dialetto minore. Adesso è come se molte persone avessero capito che il dialetto è un assegno circolare, che porta sicuramente dei vantaggi e ti fa avere a che fare con l’appartenenza. C’è stato un ritorno, ma credo sia più una cosa programmata. Ovviamente non per tutti, ma molti cavalcano un po’ l’onda di questa moda. Alcuni degli artisti che adesso cantano in dialetto qualche anno fa quasi nascondevano la propria origine, se ne vergognavano. Si percepisce quando una cosa è sincera e quando invece c’è dietro un ragionamento.
Si è mai chiesto come sia possibile riuscire ad arrivare ad una platea ben più ampia della fascia di ascoltatori che comprendono il suo dialetto? Potremmo parlare di potere unificatore della musica all’ennesima potenza?
Credo che sia proprio nella musica, il segreto. Accostiamo il dialetto a una musica estremamente territoriale, che parla solo alle persone che lo capiscono. Ma io ho un’idea della musica che è universale, deve arrivare a prescindere. Nel mio caso è la musica che si porta appresso il dialetto e non viceversa.
Da piccolo ascoltavo sempre un disco che avevo a casa, sulla copertina c’era scritto solo Creu. Non sapevo cosa fosse, ma lo mettevo sempre da capo, ancora e ancora. Era Crêuza de mä di De André, ma l’ho saputo dieci o quindici anni dopo. Mi piaceva la musica, le parole avevano un messaggio solo grazie al suono, un po’ come quando ascoltiamo musica straniera. La maggior parte delle persone non capisce nulla di quello che dicono le canzoni in inglese. In quel caso ci giustifichiamo se non capiamo. Le canzoni in dialetto, invece, sembrano ancora un limite alla nostra comprensione. A parte i grandi tipo Pino Daniele e De André, pochi sono quelli che hanno cercato di fare una cosa trasversale. Quello che mi piacerebbe fare è proprio questo: una mia sintesi musicale, una musica che arrivi a tutti. Se posso azzardare una conclusione, il segreto sta proprio là.
Parola al regista del videoclip Assamanù di Setak – Marco Mazzone
Il video di Assamanù è volutamente molto semplice e casalingo, e mostra una recording session. Quanto c’è di suo?
L’idea nasce in maniera molto semplice da richiesta di Nicola (Setak, ndr). Seguendo un po’ il flusso della canzone e un po’ il titolo, che significa “io sono fatto così”, mi ha chiesto espressamente di fare un video molto semplice che fosse una sorta di studio session. Da regista mi sono detto, “fai un passo indietro, meno ego, segui la richiesta dell’autore”. E come sempre, quando si crea qualcosa ex novo, abbiamo fatto incetta di references, e siamo arrivati al programma televisivo britannico From the Basement, un grande classico di quando si fanno le studio session.
Di lì abbiamo semplicemente cercato di riportare quello che era il desiderio di Setak, sia nella session, sia con tutti gli amici che ha invitato durante la giornata. È stata un po’ un misto tra una recording e una bevuta tra amici, una sorta di rimpatriata che poi è stata l’esperienza stessa del video.
Quest’aria familiare riprende anche un po’ quel concetto di dialetto che è alla base di tutta la creazione e produzione di Setak, non crede?
Assolutamente sì. Anch’io sono abruzzese, ci siamo conosciuti perché abbiamo dei musicisti amici in comune. La stessa richiesta di chiamarmi nella realizzazione del video è figlia della sua esperienza come artista, proprio nell’album stesso, nella canzone nello specifico. Questo clima familiare, questo modo di potersi accerchiare di persone alle quali si vuole bene è proprio del flusso creativo di Nicola, è nel flusso stesso del video. È palese che sia stato un video realizzato in amicizia, in un clima che sembrava tutto fuorché un vero e proprio set, dove c’è tensione, ansia, stress. Il set era disteso, piacevole, divertente. Ci siamo divertiti tutti, perlopiù grazie al carattere di Nicola, al suo essere istrionico, coinvolgente.
È difficile, come regista, dare un taglio personale ad un video volutamente semplice come in questo caso?
Quando fai questo mestiere puoi scappare, puoi cercare di nasconderti quanto più possibile, ma la tua anima viene sempre fuori. L’idea fotografica che abbiamo avuto io e Claudia, la direttrice della fotografia, era quella di realizzare una sorta di studio session, ma allontanandoci dal canone televisivo, cercando di sporcarlo.
Come se fosse una studio session fatta con una camera un po’ sporca. Il video è semplice, ma la sporcatura, il piccolo errore, la macchina incerta, la macchina traballante sono quello che voglio mettere nei miei lavori. Puoi fuggire dalla tua personalità, ma in qualche maniera ritorna, e lo si vede nell’immagine, lo si vede nel tentativo di messa in scena. Il taglio personale viene lì, e si allontana quanto più possibile dall’immagine televisiva. Che è poi il rischio, soprattutto quando si fa un video del genere.
Ha delle influenze nel suo lavoro?
Tanto cinema britannico. È dura parlare di riferimenti specifici nell’ambito videoclip, ma ce ne sono molti cinematografici che mi spronano nella creazione. Sono un grande amante di Andrea Arnold e delle storie di Ken Loach, ma il riferimento non penso sia immediato. Ma anche Garrone in Italia è un riferimento per quell’idea di sporco di cui le parlavo. Mi piace questo genere di cinema non convenzionale che si allontana un po’ dai canoni estetici di bellezza estrema, è quello che mi ispira di più sicuramente.
Questo sporcare di cui parla lo ritrova nei videoclip italiani oppure è un qualcosa che vede più all’estero?
Non vedo tantissimi videoclip italiani, però le grandi case di produzione italiane sono sempre più propense per dei video estremamente estetici. Anche nel mondo della trap, i video più sporchi che puoi vedere hanno sempre un che di fashion, probabilmente perché le produzioni si fanno tutte a Milano, dove la tendenza è sempre quella.
C’è tanto sporco, ma è uno sporco ragionato. Le produzioni cambiano, anche i criteri, l’ispirazione americana cerca di creare questo immaginario. Ma se parliamo di “sporco” vero, per come lo intendo io, tra i videoclip francesi, c’è sicuramente un mondo veramente interessante da scoprire.
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