
Negli anni ’70, mentre i giovani ascoltavano rock e i cantautori snobbavano il Festival della Canzone Italiana, Sanremo era un universo separato, con le sue regole e il suo pubblico. Dopo vicende alterne, oggi la situazione sembra ritornata un po’ indietro: il Festival è di nuovo una specie di “bolla” musicale, che rappresenta solo una parte della musica italiana, con l’esclusione di interi generi. C’è una certa mancanza di varietà nella selezione di quest’anno, anche solo rispetto all’anno scorso.
Nell’edizione 2024 del festival si poteva sentire il pop-punk de La Sad, o le suggestioni synth-wave dei Santi Francesi, così come il ritmo frenetico di Onda Alta di Dargen D’Amico, o ancora un inno al self-empowerment come La rabbia non ti basta di Big Mama, insieme a pezzi più radiofonici di Angelina Mango, Mahmood e Ghali con melodie più complesse.
Quest’anno si è scelto di evitare cose troppo “diverse”, ci sono tante ballad e una vena di tradizionalismo che ha reso la rappresentazione omogenea e sicura, senza provocazioni (e senza riferimenti queer o a forme di espressione più fluide).
In ogni caso il rap, la musica elettronica e urban sono stati quasi eliminati dalla competizione, con una scelta precisa.
Bisogna anche osservare che quei generi sono stati assorbiti e hanno ibridato la musica leggera ormai da diversi anni, semplificando le armonie, eliminando assoli strumentali, utilizzando gli strumenti in modo ritmico, aumentando il numero di parole nelle melodie delle strofe diventate più veloci, in una specie di rap melodico.
La dimensione veramente sanremese sopravvive e si mantiene in alcuni ritornelli, nel ponte fra la strofa e il ritornello (come nel brano di Rose Villain) o nello “special”, quella sezione intensa ed ariosa che appare solo una volta.
Giorgia, in controtendenza, ha proposto un brano interamente melodico, accelerando la melodia solo nello special. La sua straordinaria vocalità risalta ancor di più quest’anno, complice l’assenza di altre voci espressive come quelle di Mengoni, Tosca o Diodato. Saper trovare una sintesi convincente tra i paradigmi classici della musica da festival e un’intenzione più contemporanea, in sintonia con i gusti presenti, è impresa ardua, impresa che quest’anno è stata compiuta solo da pochi pezzi in gara.
Le eccezioni
Ci sono però alcune eccezioni rispetto al tradizionalismo di questa edizione. Clara (prodotta da Dardust, presenza fissa del festival e con la collaborazione di Madame) ha interpretato Febbre, una canzone con un ottimo bilanciamento tra presenza orchestrale ed elettronica, con alcuni piccoli dettagli di produzione (il suono che si rompe sulla parola glitch, ad esempio). Inoltre, al contrario di molti pezzi di quest’anno, nel pezzo di Clara l’orchestrazione è curata, con l’organico classico ben contestualizzato e valorizzato nell’arrangiamento.
L’orchestra è una componente delicata che ha una storia importante in Italia (citiamo anche solo Puccini e Morricone per il ‘900) ed è un peccato vedere come spesso non risulti udibile o vederla utilizzata come uno strumento qualsiasi.
Gaia ha rotto alcuni schemi tradizionali evitando il classico alternarsi di strofa, ponte e ritornello, con una forma più complessa. Elodie, che l’anno scorso con il pezzo Due aveva portato una ventata di innovazione melodica e formale, quest’anno ha portato un brano che segue di più le regole convenzionali, cercando di armonizzarle con un arrangiamento contemporaneo dall’impronta fortemente elettronica, e dando spazio all’orchestra sia nel primo ritornello che nel bridge.
Interessanti anche le diverse citazioni musicali – dal piano elettrico di The Logical Song dei Supertramp con cui inizia anche la canzone dei The Kolors, al brano Goodnight Moon di Shivaree (famosa per la colonna sonora del film Kill Bill di Quentin Tarantino) che indora un po’ l’atmosfera del pezzo di Joan Thiele.
L’evoluzione del Festival: dalla canzone al cantante
Un tempo il Festival era incentrato sulla canzone: si partiva dal brano e poi si trovava l’interprete più adatto (o per alcuni anni addirittura i due interpreti più adatti). Oggi, invece, a volte il percorso può verificarsi in modo inverso: si sceglie un cantante in base alla sua popolarità recente e gli si affida un team di autori, compositori e arrangiatori, spesso legati agli editori, che compongono un brano ad hoc, o ne adattano uno già pronto.
Questo meccanismo ha creato una netta distinzione tra due tipi di artisti: da un lato i cantanti o i rapper che sono anche autori dei loro pezzi (come Cristicchi, Corsi, Brunori Sas, Willie Peyote), in cui il valore del testo prevale sull’arrangiamento e sulla melodia; dall’altro, brani più standardizzati, magari più curati nelle melodie, ma spesso incentrati sull’amore, perché si tratta di un tema universale che può essere interpretato da qualunque artista. Temi più sociali o più specifici non sono facilmente adattabili a qualsiasi tipo di personaggio/cantante. Non a caso quest’anno moltissime canzoni hanno come tema l’amore, e non a caso alcuni autori sono presenti in un numero importante di pezzi.
Sanremo in futuro? Creatività ed omologazione
Cosa sarà Sanremo nei prossimi anni, con l’avvento già in atto dell’intelligenza artificiale? Continuare a riproporre schemi già conosciuti potrà avere senso in futuro? Se la musica si appiattisce su schemi predefiniti, la composizione, gli arrangiamenti e persino le voci possono essere facilmente sostituite da forme di creatività non umana che trae forza da modelli ripetitivi e già esistenti. Più ci si avvicina a una certa uniformità musicale, meno spazio resta per la creatività umana.
La domanda per il futuro, ma già per il presente è: “Cosa rimane all’uomo?” All’uomo rimane l’intuizione, irriproducibile per la macchina, che permette di inventare il nuovo o trasformare in maniera imprevedibile ciò che già esiste partendo dalla propria capacità di sognare e attingere al proprio inconscio.
Tutto il resto è sostituibile. La diffusione planetaria dei sistemi chiusi di AI che consentono a chiunque (anche a non musicisti) di realizzare una canzone “standard”, semplicemente elaborando un testo non musicale, mette in discussione la questione della creatività umana, il senso che può avere la specializzazione musicale, oltre a porre in ballo e sotto osservazione il tema della creatività non umana.
Analizzare questo uso della tecnologia è certamente utile, in quanto ci rivela, anche con Sanremo, quanto possa essere meccanico e riproducibile il processo della cosiddetta creatività umana musicale di largo consumo, in particolar modo quando l’adattamento degli artisti all’ambiente sociale e tecnologico orienta la creatività verso un’esperienza estetica sottomessa al condizionamento del marketing. Sarebbe interessante pensare già da ora a questi temi, per adattare il Festival a ciò che accadrà nei prossimi anni.
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