Kamala “yes, she can”, ma quale America vogliono davvero gli americani?

Cosa c’è in gioco nelle prossime elezioni presidenziali statunitensi: quali le nostre aspettative dall’Europa ma quanto può essere distorta la nostra percezione nella sfida polarizzata tra Kamala Harris e Donald Trump.

Quale America vogliamo, si chiedeva lo splendido video emozionale trasmesso nella seconda giornata della convention democratica di Chicago, che ha consacrato Kamala Harris come candidata del partito per le presidenziali. Quale, quindi? La domanda, alla fine di questa settimana assai intensa per la politica statunitense, è più chiara che mai. Se c’è un aspetto positivo della crescente polarizzazione del dibattito pubblico a stelle e strisce, è proprio questo: ci costringe a schierarci tra un bene e un male sempre più definiti, senza più spazio per le sfumature di grigio tra un bianco e un nero, o per usare i colori tradizionali della politica americana, tra un blu e un rosso, distinti come non mai.

Quale America vogliono davvero gli statunitensi, viene quindi da chiedersi da un’Europa che guarda con curiosità, stupore ed apprensione una corsa presidenziale spesso poco comprensibile a queste longitudini, dove ci si dimentica spesso che gli americani votano soprattutto col portafoglio, dove si confondono spesso gli Stati Uniti le città più appariscenti e brillanti (ma dal cuore saldamente democratico), dove si dimenticano le zone rurali (che costituiscono il 20% dell’elettorato e pesano di più di quelle urbane, a causa di un particolare sistema elettorale) e dove, infine, le nostre paure di essere lasciati “soli” in questa sempre più perigliosa politica internazionale le scacciamo con “intanto vincerà lei”.

 

Spot “Libertà” trasmesso dalla DNC per dare il via alla Convention Democratica.

Tutto ciò premesso, una cosa è certa: Kamala e, con lei, la leadership democratica in questa quattro giorni sulle rive del lago Michigan hanno fatto bingo. Hanno reso omaggio alla generosità di Joe Biden che è pur sempre ancora presidente e che alla fine ha ceduto il passo. Hanno rispolverato e impreziosito i coniugi Obama, con una Michelle che, più pasionaria non mai, ha quasi superato il marito nella capacità di retorica e di mobilitazione. Hanno fatto emergere sul palco una classe politica giovane, brillante e preparata. Hanno mobilitato quanto più mondo dello showbiz era loro possibile fare. Hanno scelto un candidato vicepresidente capace di parlare a quella famosa classe media dimenticata e nascosta.
Last but not least, hanno saputo trovare una candidata presidente con una storia potente che parla da sola (e che ha portato più d’uno a declinare al femminile il mantra obamiano del “yes, we can”), con un sorriso smagliante, con una empatia contagiosa, con un programma elettorale molto pragmatico e riformista (di centro-centro-sinistra, si direbbe in Italia) e con una valanga di soldi che si sono materializzati sotto forma di donazioni da ogni angolo del Paese.
Yes, she can, verrebbe da dire a queste latitudini. Perché è femmina, è capace, è di colore, è di sinistra, è giovane (parlo di immagine, un po’ meno sulla  ID card), è pro aborto e pro diritti civili, ma è anche moderata, specie sull’economia. Ha tutte le qualità per farcela: parla alla classe media, ma anche agli immigrati, al popolo LGBT, alle donne, alle città colte e progressiste, al mondo politicamente corretto ed anche a quello democratico più ragionevole. Racconta con la sua vita, col colore della sua pelle e coi suoi sorrisi un sogno americano di chi ce la può fare partendo dal basso o persino arrivando irregolare nel Paese.
E trasuda ottimismo: quell’ottimismo che viene solo da quell’idea solidale e tutta comunitaria dell’insieme ce la possiamo fare, con quella narrazione tipicamente a stelle e strisce che incredibilmente i repubblicani con Trump ed il suo ego ipertrofico hanno lasciato al campo avverso. E dall’altra parte Kamala ha il suo esatto contrario: un maschio caucasico anziano (paradossalmente, tutta la narrazione di Trump contro il Biden vecchio e stordito gli si sta rivoltando contro), rabbioso, pieno d’ira e risentimento, più freddo che empatico.
Un po’ come quel vicino di casa che per farti dispetto ti manda nel tuo prato le foglie con il soffiatore, come ha detto Barack. E peraltro un “felon”, un criminale – come continuano a ripetere i dem – contro una ex procuratrice, in una inedita rievocazione di un classico, quello delle guardie contro i ladri, che raramente sul grande e piccolo schermo ha visto i secondi vincere.
Il sorriso di Kamala contro le smorfie – il muso, si direbbe in Toscana – di Trump. I diritti contro la loro negazione. L’autodeterminazione contro un’ideologia pesante e ingombrante. L’accoglienza contro i muri. Il noi contro l’io. Il senso di comunità, il prendersi cura dell’altro contro le sue battute politicamente scorrette, il suo ego strabordante, il suo insopportabile cinismo. Se non ci fosse il portafoglio di mezzo, davvero la partita vista dall’Europa sarebbe già giocata e vinta da Kamala. Ma non è così e lo vedremo a novembre come davvero finirà. E che risposta gli americani daranno alla fine a quella domanda che ci siamo posti all’inizio: quale America vogliamo, quale America davvero loro vogliono?
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