
Leopardi e Mussolini: nessuno si sarebbe mai sognato di credere che tra loro esistesse qualsiasi tipo di relazione. Una sorprendente incandescenza mediatica, prodotto di un ragguardevole successo d’ascolti e da un dibattito vivace, ha invece congiurato perché questo inizio del 2025, grazie a due serie che li raccontano come non era mai stato fatto, li accomunasse, sincronicamente, nell’amalgama incessante di opinioni, post, recensioni, resoconti di cronaca del costume e dello show business. L’audience di Il poeta dell’infinito, di Sergio Rubini (scritto insieme a Carla Cavallucci e Angelo Pasquini) ricordano quelli della grande tradizione letteraria e pedagogica degli sceneggiati della Rai. In realtà, invece di quel siderale bianco e nero di cui erano fatti gli sceneggiati, le due puntate di questa serie, abitate da un Leopardi che ha provocato interessanti polemiche, anche scomposte, sono dotate di un tessuto di cinema di qualità impensabile nella fiction tradizionale (Francesco Frigeri alla scenografia, Fabio Cianchetti alla fotografia, Maurizio Millenotti ai costumi). Il primo episodio ha un passo incalzante che tratteggia con precisione e nitore l’ambiente famigliare e soprattutto la figura chiave di una madre oscurantista e gelida e il padre Monaldo, al quale il poeta doveva una spietata repressione e allo stesso tempo la migliore biblioteca che un privato possedesse all’epoca: sullo sfondo drammatico e anche sanguinoso della prima metà del Risorgimento, Rubini prende spunto da una verità poco conosciuta. Il poeta dell’infinito fu seguito da spie al soldo degli austriaci il cui compito era di sorvegliare le sue frequentazioni di comunità patriottiche e le sue accese convinzioni liberali. Nel secondo, invece, la serie si concentra sull’amicizia con Antonio Ranieri e la passione per Fanny Targioni Tozzetti (nell’interpretazione, decisamente al di sopra della media della serialità RAI, di Cristiano Caccamo e Giusy Buscemi). Non ha gobba, non ha disabilità repellenti, non ha remore nell’esplorare il proprio desiderio questo Leopardi di Leonardo Maltese che ha mandato in bestia il critico del Corriere della Sera ma la forza con la quale la serie esplora convinzioni politiche e anfratti psichici, erudizione sterminata e sensualità poetica, rivolta come un calzino lo stereotipo scolastico dell’infermo che la natura maligna, infliggendogli condizioni miserabili, avrebbe spinto all’inutile surrogato della vita in forma di versi. Sono bastati invece due episodi di M il figlio del secolo, tratto dal best seller di Antonio Scurati, interpretato da Luca Marinelli, diretto da Joe Wright, per generare un’analoga inquietudine, sia a destra che a sinistra. Che Mussolini è questo corrusco “mascellone” (come lo chiamava Gadda, al quale, secondo me, sarebbe piaciuto molto)? Questo tiranno ebbro e instabile che parla in macchina come se fosse a teatro, copula come un doberman e si lascia precipitare nell’ottovolante del Novecento, tra la rabbia della vittoria mutilata e l’olocausto del proletariato socialista, sterminato in poche stagioni con una violenza che avremmo potuto trovare in un film di Scorsese (ampiamente documentata dai libri di Scurati)? Questo Mussolini è una fantasia diabolica, un dittatore che ripercorre come in un happening futurista, la propria vita con l’energia roboante e minacciosa, gagliarda e frenetica, rievocata da un lavoro eccezionale sul tappeto magmatico, scintillante, oceanico del sottofondo sonoro. Lo stesso Scurati, che ha collaborato insieme a Stefano Bises e Davide Serino alla sceneggiatura, è rimasto sorpreso, all’inizio, dall’audacia, di questa soluzione, il cui precedente è da ricercarsi, a mio avviso, nelle biografie di Stalin, di Hitler e di Hiro Hito di un grande maestro del cinema contemporaneo come Sokurov (Moloch, Toro, Il sole)
La destra, abbastanza compatta, l’ha rifiutato, quasi offesa, la sinistra sembra guardarlo con perplessità, senza capirlo. Ma se le giovani generazioni guarderanno con sospetto chi continua a dire “però ha fatto anche cose buone”, dopo aver visto i corpi di contadini e operai massacrati da percosse e dati alle fiamme, forse si dovrà a opere come questa.
In conclusione, al netto di ogni valutazione più specifica, sembra proprio che questo inizio del nuovo anno ci porti alcune originali novità di cui tenere conto.
La prima. C’è nell’industria audiovisiva italiana, finalmente, la forza materiale e creativa necessaria a ripercorrere la nostra memoria, e la nostra identità, con la stessa disincantata passione e lo stesso bisogno di capire e scoprire che, per esempio, il cinema americano ha mostrato negli ultimi anni con notevoli film dedicati allo schiavismo, alla discriminazione razziale, alla corruzione politica.
La seconda. L’insorgenza delle polemiche è il primo sintomo di un’animazione che configura segni di vita nella cultura: la serialità italiana ha raggiunto un grado di maturità tale da provocare dibattiti diffusi e importanti come lo erano quelli che il cinema italiano ha saputo generare tra la fine della guerra e la fine degli anni ’70, adottandone l’intelligenza di scrittura e la sfida estetica.
La terza. Leopardi e Mussolini. La voce lirica più importante del romanticismo europeo in lingua italiana e l’inventore della dittatura contemporanea, nel bene e nel male, sono proprietà intellettuali di questo Paese. Sarebbe un’evidenza non secondaria se queste serie, grazie al loro valore produttivo e creativo, riuscissero a rendere ciò di cui parlano una forma di sapere e piacere in grado di oltrepassare i nostri confini fisici e mediatici cercando di strapparci alla nostra irrilevanza internazionale.
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