
Mare Fuori – Il Musical si presenta come l’onda teatrale che prometteva di cavalcare il successo travolgente della serie TV, ma si infrange sugli scogli del Teatro Brancaccio, lasciando lo spettatore con una sensazione di déjà vu e un leggero imbarazzo per aver sperato in qualcosa di più. L’esperimento teatrale, attesissimo e accolto da un pubblico adorante, si dimostra un brillante esempio di come la popolarità possa a volte essere una zattera mal costruita su cui navigare nel mare agitato del palcoscenico.
La serie televisiva aveva sedotto milioni di spettatori con la sua capacità di tessere un dramma corale fatto di personaggi di buon tratteggio, mix di generi [crime e melò] e una location di imprevedibile suggestione. Il musical, al contrario, sembra ridurre tutto a un’estetica che definire “alla buona” sarebbe generoso. L’idea di condensare tre stagioni in due ore e mezza è, di per sé, una scelta audace, ma l’esecuzione si traduce in un mosaico di frammenti che si reggono a stento, come una vecchia rete da pesca che lascia passare tutto ciò che conta davvero.
La regia di Alessandro Siani sembra chiedersi per tutto il tempo dove sia finito il manuale del teatro, mentre si affida a Ledwall giganteschi per coprire le lacune narrative e scenografiche. Se in alcuni momenti questi pannelli tecnologici riescono a evocare una certa suggestione visiva, in altri – come la morte di Viola con il suo rosso splatter da film di serie B – riescono solo a strappare risate involontarie. I bui nei cambi scena, di una lunghezza epica, paiono un invito allo spettatore a controllare il cellulare o riflettere su cosa avrebbe potuto fare di meglio quella sera.
E poi c’è il playback, il grande protagonista (non dichiarato) dello spettacolo, che si presenta con la delicatezza di un elefante in una cristalleria. La mancata sincronizzazione tra il labiale degli attori e la traccia registrata crea un effetto che, più che teatrale, ricorda un karaoke mal calibrato. Un elemento che trasforma ogni potenziale pathos in un momento di fredda distanza, rompendo l’illusione scenica con l’efficacia di una secchiata d’acqua gelata.
Il cast si muove su livelli disomogenei, ma il confronto con i personaggi della serie mette impietosamente in luce le difficoltà di tradurre certi ruoli al teatro. Maria Esposito si salva, e persino brilla, nel ruolo di Rosa Ricci, dimostrando una presenza scenica che tiene in piedi le fondamenta traballanti dell’opera. Tuttavia, il resto del cast arranca: Mattia Zenzola, nonostante l’abilità nelle coreografie, non riesce a trovare una chiave d’interpretazione, mentre Christian Roberto propone una versione di O’ Chiattillo che sembra uscita da una parodia amatoriale. L’unico momento di autenticità arriva da Yuri Pascale Langer, la cui esperienza teatrale si traduce in una performance che, almeno per qualche minuto, restituisce dignità al palcoscenico.
Il paragone con la serie televisiva, che dipingeva un quadro drammatico e potente, rende ancora più evidenti le lacune del musical. Dove la prima costruiva tensioni e sviluppava i personaggi con pazienza e cura, il secondo sembra accontentarsi di offrire una versione stilizzata e priva di anima, affidandosi alla fedeltà dei fan piuttosto che a un linguaggio teatrale autonomo. Ogni scena, più che un momento di narrazione, appare come un compendio di “momenti migliori” messi insieme senza un vero filo conduttore.
Eppure, il pubblico applaude. Forse per amore della serie, forse per il piacere di vedere i propri beniamini da vicino. Ma il teatro, si sa, è un’arte che non perdona chi si accontenta. Portare volti noti sul palco non basta se non c’è la volontà di costruire qualcosa che sappia vivere di vita propria. Il risultato è uno spettacolo che galleggia senza mai immergersi, lasciando lo spettatore a chiedersi se forse il titolo più adatto non fosse Mare Calmo – Un Musical in Playback.
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