Sette, sono soltanto sette le donne di ‘ndrangheta riconosciute ufficialmente come collaboratrici di giustizia. Teresa Concetta Manago, Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Tiziana Ventura, Brunella Latella, Maria Vallonearanci. Sette nomi, sette vite, sette “pentite” che svaniscono spesso all’interno del racconto della criminalità organizzata.
Questo perché “le associazioni di stampo mafioso in Calabria sono ancora strettamente legate alla famiglia e ne riflettono la struttura, patriarcale in questo caso”, dice a THR Roma Giovanna Truda, professore associato di sociologia generale, specializzata in sociologia del diritto all’università degli studi di Salerno. “Gruppi diversi, come la camorra, sono formati da nuclei diversificati, non sempre basati su legami di sangue”, prosegue la professoressa. “In proporzione questo fa sì che in queste associazioni mafiose le donne riescano in alcuni casi a trovare la strada verso i vertici della gerarchia”. Contrariamente a ciò che avviene nelle ‘ndrine, in cui il tradimento del patto mafioso è meno frequente, proprio perché intrecciato con le relazioni familiari.
È raro quindi che un affiliato della ‘ndrangheta diventi collaboratore di giustizia: è successo solo 97 volte dagli anni Ottanta a oggi. Se a “pentirsi” è una donna, tuttavia, “quella rarità diventa l’eccezione. Fa notizia e attira l’attenzione perché rompe degli schemi ordinari. Si trasforma in spettacolo”, afferma la professoressa Truda.
Solo tra il 2021 e il 2023 ben due film e una serie televisiva hanno scoperto il potenziale delle voci delle pentite calabresi: A Chiara di Jonas Carpignano, Una femmina di Francesco Costabile e The Good Mothers di Elisa Amoruso e Julian Jarrold (per Disney+). Tre sguardi diversi sull’esistenza e sulla resistenza silenziosa, duplice e ambigua delle donne di ‘ndrangheta, contro una narrazione (generale e generalista) ancora incompleta, appiattita sugli stereotipi.
Un’influenza nascosta
“Per così tanto tempo si è creduto che non esistesse una componente femminile nella ‘ndrangheta che anche in ambito giudiziario sono spesso mancati provvedimenti e sentenze gravi contro le donne affiliate. Erano anche i tribunali a non riconoscerle”, afferma ancora Giovanna Truda. Anche dalla parte della legge, cioè, si è creduto che la donna non potesse avere un ruolo attivo nella gerarchia mafiosa, che non fosse suo compito dare ordini, usare violenza o commissionare omicidi. E che quindi non potesse essere condannata alla stregua degli uomini.
“Le donne sono sempre le stesse, cioè sono sempre ugualmente presenti. È la società che lentamente cambia. Ciò che fa l’organizzazione criminale, quindi, non è altro che l’esatta riproposizione della struttura della società in cui essa nasce e opera”, prosegue la sociologa. In una società patriarcale la criminalità organizzata non può che essere patriarcale, è un elemento culturale duro da scalfire, però a suo modo è in evoluzione, perché la realtà è molto più stratificata, molto più complessa.
“Oggi le figlie dei boss frequentano l’università, diventano manager, entrano nelle stanze del potere, quelle in cui vengono prese le decisioni”, afferma la professoressa. “Riescono a subentrare ai padri o ai fratelli, se arrestati per esempio, da un giorno all’altro, perché sanno già cosa fare”. Solo, non sono visibili dall’esterno. È anche facendo così che la criminalità organizzata è sopravvissuta nel nuovo millennio, dopo i maxiprocessi: lasciando che fossero le figlie, le sorelle e le mogli dei boss a prendere le redini nel momento del bisogno, in modo del tutto inaspettato dalla società.
Il potere è donna, la vendetta è madre
“Sembra sentimentale, ma una donna della ‘ndrangheta si consegna alla giustizia solo per un motivo molto preciso, quando cioè sente di aver subito un abuso, come madre e come moglie. Quando le uccidono il figlio o l’uomo che ama, quando subisce violenza e stupri domestici, quando sente il pericolo in agguato sulla propria famiglia”, dice Truda.
La domanda, tuttavia, a questo punto è lecita: non è riduttivo parlare soltanto di madre prima che di donna, persino in questo contesto criminale? Per la sociologia la risposta è: “No, tutt’altro”.
“La donna-madre va intesa in senso archetipico”, afferma la professoressa Truda. Nonostante la ‘ndrangheta e la criminalità organizzata in genere ostentino un “apparato di stampo maschile e maschilista, la struttura psicologica profonda della criminalità organizzata resta matriarcale”. Basti pensare anche a linguaggio delle cosche e delle ‘ndrine, in cui i boss vengono chiamati anche mammasantissima o i novizi giurano lealtà versando del sangue sulla figura di una Madonna.
“La donna-madre cioè protegge, cura, mantiene i segreti, ha a che fare con tutto ciò che riguarda il dare e trasmettere la vita, quindi anche la trasmissione di un codice di valori” e non solo di una discendenza genetica, di sangue. Al tempo stesso la donna-madre sa di doversi schierare, “con o contro i propri uomini, attraverso l’incitamento alla vendetta”, quest’ultima arma femminile per eccellenza nella ‘ndrangheta. Silenziosa, nascosta, costante, “strumento termoregolatore degli uomini” come affermava anche il magistrato Nicola Gratteri nei suoi anni da procuratore in Calabria.
Un’ambiguità difficile da cogliere
In un contesto iper-codificato come quello della criminalità organizzata, gli stereotipi (anche di genere) prevalgono ancora sulla realtà. Nelle rappresentazioni cinematografiche e televisive, per esempio “ancora si dà più spazio a un ruolo materno passivo delle donne di mafia, senza riuscire a cogliere l’ambiguità, la natura doppia femminile e la coesistenza di una mente criminale – e quindi una posizione attiva – in quel ruolo”.
Ci ha provato, al contrario, Maria Pia Calzone in Gomorra, citata dalla professoressa Truda: “Madre sì, ma non secondo i nostri canoni. Perché lei è capace di mandare il figlio in Honduras, tra i cartelli della droga, per renderlo crudele e quindi adatto al comando. E lo fa per salvarlo, per renderlo adatto e vincente nel mondo violento in cui si ritrova ad agire”. Non avrebbe raggiunto lo stesso grado di credibilità, tuttavia, Calzone, se non avesse scelto di incontrare vere donne di camorra, cogliendo la complessità del loro agire criminale.
Allo stesso modo hanno provato a rappresentare la medesima ambiguità sullo schermo, in termini inediti per il pubblico italiano, anche Valentina Bellè e Lina Siciliano, nei panni di Giuseppina Pesci (rispettivamente in The Good Mothers e Una femmina) e ancor di più Swamy Rotolo che in A Chiara (di Jonas Carpignano) lotta contro se stessa, contro l’amore che prova per il padre e per la famiglia, contro il mondo in cui è cresciuta e in cui in fondo si riconosce. E, soffrendo, compie una scelta decisiva.
Finché, però, gran parte del cinema e della televisione continuerà a privare le donne di tridimensionalità psicologica in ogni contesto, anche questa profonda duplicità verrà persa. E non resteranno altro che sagome vuote di vecchi stereotipi, delle good mothers per i goodfellas.
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