The Mandalorian 3, la recensione: rimpiangere il western e sognare Andor

Perché è risultata deludente la terza stagione? In parte il problema è Andor, che ha proiettato l'universo Star Wars in una nuova dimensione. E poi ha pesato l'addio allo stile Kurosawa-Leone, sacrificato in nome del merchandising di Baby Yoda

Il problema più grande della terza stagione di The Mandalorian, disponibile in streaming su Disney+, è Andor. Arrivare dopo una serie del genere, scritta in quel modo, con quella capacità di costruire, tenere insieme e appassionare, rischia di essere un limite. Perché tutti, poi, cominceranno a fare paragoni, ad avvicinare le due serie e i due racconti, e a notare le differenze. Che ci sono, e sono piuttosto evidenti per chiunque.

Quello che serve, ora, è provare a fare un passo indietro e guardare The Mandalorian da un altro punto di vista. Innanzitutto: diamo a Cesare quel che è di Cesare. The Mandalorian è stato il progetto che ha rilanciato Star Wars. E quindi è stato costretto a incarnare due anime. Quella più commerciale, rivolta al pubblico orizzontale e più ampio, e quella verticale, rivolta al pubblico degli appassionati.

All’inizio era un western, e il protagonista, Mando, parlava pochissimo. Aveva la faccia coperta da un elmo lucente, un mantello marrone raccolto sulla spalla destra, e la pistola laser pronta, sul fianco. Era un gioco di gesti, di sospiri e di occhiatacce. Poi il genere fantascientifico si è ritagliato uno spazio più importante, e la narrazione si è spostata altrove. Baby Yoda è diventato centrale (qui entriamo in un altro discorso, uno molto caro alla Disney, che in poche parole possiamo riassumere con: serve un personaggio per vendere merchandising).

La prova attoriale di Pedro Pascal e del resto del cast è passata quasi in secondo piano. Se la prima stagione si è concentrata su una sola missione – il pacco va consegnato, il bambino va dato all’Impero –, la seconda ne ha aggiunte altre e ha approfittato del ritorno di vecchi personaggi. C’è stata la possibilità di trovare un equilibrio tra i vari aspetti del racconto. La scrittura di Jon Favreau (e – occasionalmente – di Dave Filoni) ha dovuto gettare le basi per un nuovo capitolo della saga creata da George Lucas: non lontana da quella principale, ma ambientata subito dopo la trilogia originale, con la Nuova Repubblica appena nata e l’Impero frammentato e disperso in giro per la Galassia.

I colpi di scena non sono mancati, e tra trovate intelligenti, come riportare gli animatronic e i pupazzi, usare modellini e ambientazioni ricreate in studio, e trovate decisamente più furbe, come il crescendo narrativo tra un protagonista che diventa, pur non volendo, buono e la costruzione di una nuova famiglia, tutto – per le prime due stagioni, ripetiamo – è andato bene.

Con la terza qualcosa si è rotto. In parte per colpa – diciamo così – di The Book of Boba Fett, che ha richiesto, a un certo punto, l’intervento di Grogu, il vero nome di Baby Yoda, e di Mando, e che ha portato, anche se di poco, la loro storia poco più avanti. La terza stagione di The Mandalorian, insomma, è dovuta ripartire da qui. Sfilacciata, affaticata, con il rischio di ripetersi. Dal western più classico, a metà tra Kurosawa e Leone, a un racconto più Guerre Stellari-centrico. Fino alla riscoperta del gruppo, della nazione e del pianeta dei Mandaloriani, alle loro tradizioni e al bisogno di un nuovo governo.

È tornato il cattivo che abbiamo visto nella prima stagione, Moff Gideon, interpretato da Giancarlo Esposito, ed è tornato pure il dibattito, tra gli appassionati, sul canone di Star Wars: qual è la regola, cos’è ufficiale e cosa bisogna (e non bisogna) seguire. Il problema, però, è Andor. Lo ripetiamo. Quella è una serie moderna, tesa, appassionata. Scritta magnificamente.

La terza stagione di The Mandalorian, invece, pecca di superficialità. Soprattutto all’inizio, nei primi episodi. Jon Favreau ha un compito difficilissimo, è vero. Però rimettersi in moto così, dopo aver dato agli spettatori un personaggio come Mando, è a tratti controproducente. La trama verticale, rispetto a quella orizzontale, ha preso il sopravvento. Per le prime puntate, tutto quello che vediamo sono frammenti e missioni, che apparentemente – e solo apparentemente – non hanno niente in comune (in realtà, si scoprirà alla fine, era tutto collegato: ma si scoprirà, appunto, solo alla fine). Questo è successo perché, produttivamente e anche dal punto di vista dell’architettura della narrazione, è stato fondamentale trovare delle basi.

The Mandalorian ha dato il là ad altri spin-off, come quello su Ahsoka, interpretata da Rosario Dawson, e ora fa quasi da ossatura per Star Wars (televisivamente, almeno). La terza stagione è, in questo senso, una stagione di transizione. Di passaggio. Fa da ponte, ecco. Tra un inizio sfavillante e un futuro, si spera, altrettanto convincente. L’universo di Guerre Stellari è un universo ricco di dettagli, pianeti, tradizioni e popoli. Ci sono possibilità pressoché infinite per esplorarlo. Quello che serve è farlo nel modo giusto. Intelligentemente. E non è una cosa scontata, e nemmeno così facile – lo sappiamo.