
Prima è stato il libro, poi il film di Stefano Sollima, e ora a distanza di 13 anni dall’ultimo adattamento, Acab All Cops Are Bastards, nato dalla penna di Carlo Bonini approda in piattaforma con una serie di 6 episodi ideata dallo stesso autore, diretta da Michele Alhaique e disponibile su Netflix.
In un gioco di inevitabili rimandi tra editoria, cinema e serialità Acab racconta la vita di un Reparto della mobile dopo un pestaggio avvenuto in Val di Susa nel corso di una manifestazione No Tav: accuse, conflitti, tensioni, vissute dall’interno di un gruppo della Celere che si ritrova gettato nel disordine e nel mezzo di una crisi di coscienza. Il fatto tragico scuote l’opinione pubblica ma anche lo stesso corpo di polizia, mettendo a confronto, ma soprattutto in contrapposizione, immagine pubblica e dimensione individuale di tutti gli appartenenti alla squadra.
Il regista, Michele Alhaique, ha raccontato a Hollywood Reporter nascita e sviluppo di una serie che colpisce per la capacità di mettere insieme cinema spettacolare e un’attenta indagine psicologica dei suoi personaggi.
La serie mostra un lavoro complesso e stratificato, rispetto alla messa in scena, alla regia, agli attori e ai loro personaggi, un’elaborazione completamente nuova della materia di cui si nutrono sia il libro di Bonini sia il film di Sollima, operazione che ti ha permesso di distaccarti da entrambi…
Quando sono arrivato io il progetto era già in fase avanzata: tutta la storia è stata successivamente sviluppata dagli sceneggiatori attraverso un confronto costante che ci ha permesso di dare ad Acab la serie un’identità autonoma. Staccarsi dalla matrice letteraria e dal film era inevitabile per me: sono 11 anni che faccio questo lavoro, dopo il primo film ho sempre fatto serie, e non sono mai riuscito a fare lo “shooter tecnico”, ovvero quello che mette in scena lo script e basta. Non conosco un altro modo per mettere in scena una storia, se non quella di avere una comprensione profonda del processo emotivo dei personaggi e dell’andamento della vicenda. Devo entrare nel racconto, vedere con i miei occhi e condividere questa visione con chi scrive. La serialità, il poter distendere la narrazione su un percorso lungo, ci ha dato inoltre una grande possibilità rispetto al film di Stefano, quella di esplorare inevitabilmente molto più a fondo il mondo intimo dei protagonisti, cogliendoli nella difficoltà di conciliare sfera pubblica e privata, e osservare come l’elemento della violenza, con cui hanno quotidianamente a che fare si insinui anche nella loro dimensione intima.
La violenza è concentrata solo in due momenti: all’inizio durante la manifestazione in Val di Susa, in cui i tempi dell’azione aumentano la tensione in modo sorprendente, e alla fine, quando sono i celerini ad essere braccati. In mezzo c’è il respiro silenzioso dell’introspezione dei protagonisti.
È importante che sia così. Se dall’inizio la posta in gioco è la violenza, per chi guarda, questa rimane sempre sottopelle ed è come se il racconto si muovesse costantemente sul pelo dell’acqua. Mi viene in mente Brian De Palma con Scarface. Lui fa proprio questo: stabilisce subito, nella scena della motosega, che è una scena che al tempo era ed è tuttora di una ferocia spiazzante, i termini della violenza, dopodiché per il resto del film quel racconto non c’è, non si arriva a quel grado di brutalità perché altrimenti, se il racconto di quella violenza fosse continuativo, ci sarebbe una desensibilizzazione, una perdita della tensione. È il motivo per cui alcuni tipi di horror o di action movie più commerciale ci lasciano spesso anestetizzati,. Per me era importante questo: dare un peso a un tipo di narrazione della violenza latente, che desse vita a dei personaggi sempre in bilico su quella linea sottile che può scatenarla. Ciò che a me interessa è mettere sempre i personaggi sotto pressione e vedere come questa pressione viene scaricata: all’interno dello stesso ambiente, della squadra, o al contrario nella loro sfera più intima.
So che sei un grande estimatore di Michael Mann, cosa non difficile da capire guardando le tue serie, e non solo per la predilezione del genere noir poliziesco, ma anche per l’attenzione che dedichi al racconto del lavoro, elemento molto presente nei suoi film.
È un autore che ammiro molto: le nostre ossessioni diventano parte del nostro immaginario ed facile riproporre inconsapevolmente delle cose che fanno parte della tua formazione. Credo di aver assorbito dal cinema, la necessità, di scendere in profondità per guardare da vicino, facendo coincidere il più possibile la mia visione con quella dei protagonisti. Seguendo questa strada si trova sempre qualcosa di interessante. Pensando proprio a Michael Mann: bisognava andare oltre quella squadra di Celerini, vista come un unico blocco bianco e azzurro fatto di scudi con la scritta polizia e scoprire l’essere umano che c’è dietro quel gruppo apparentemente omogeneo, rimetterlo al centro, altrimenti si fa un processo che è lo stesso di chi colpisce col manganello o col sasso perché disumanizza chi ha davanti.
Tra l’altro questo processo di ri-umanizzazione, secondo me, passa anche attraverso un racconto dei luoghi che si sottrae volutamente al cliché del cinema di genere. Penso ad esempio al commissariato, che tu racconti con una ricchezza di dettagli e un punto di vista che sono molto diversi da quelli a cui questo tipo di film ci ha abituati…
Per me era importante costruire un contesto dove in qualche modo, esattamente come dentro il blindato, i poliziotti si sentissero costretti, dove fosse costante quella pressione di cui parlavo e ho cercato di farlo dando continuità al posto dove loro passano la maggior parte del tempo. Era necessario anche diversificare gli ambienti in cui si muovono e in cui i comportamenti e il valore delle loro azioni posso essere molto diverse. Nella zona in superficie ci sono gli uffici, caratterizzati da grandi vetrate, che riflettono una trasparenza anche in termini di relazioni. Il modo operativo invece, quello in cui si preparano, in cui si armano e dove montano sui blindati si trova in una zona sotterranea dove non si distingue la notte dal giorno, perché c’è la luce artificiale h24. Questa separazione degli ambienti mi è servita per dare corpo a quella dimensione di scissione tra vita pubblica e privata di cui parlavamo prima: il momento in cui indossano la divisa è anche il momento in cui per loro c’è maggiore distanza con il mondo esterno, come se vedessero ciò che li circonda attraverso un vetro e loro stessi venissero osservati in questo modo, come dentro e fuori ad un acquario. C’è sempre un filtro, che cambia a seconda delle circostanze, una volta è il video, un’altra lo schermo, un’altra ancora uno scudo, tutte barriere che separano dall’essere umano.
Pur dando grande importanza all’indagine psicologica dei personaggi, la tensione è sempre viva anche grazie alle scene di action che, devo dire, sono degne del miglior cinema d’azione
La sfida è stata quella di dare vita a dei momenti action all’interno di un racconto in cui risuonasse la verità dei personaggi, perché l’azione di per sé non è interessante se non riverbera su un’emotività, su un obiettivo, su una motivazione di chi la sta mettendo in atto. E legare queste due cose non è semplice. Oltre a questa difficoltà c’è stata quella di rendere il più possibile fluida e dinamica la scena iniziale dello scontro, dove, di per sé l’azione dei due schieramenti opposti è statica e la dinamicità è data dalla costruzione precisa dei movimenti, come fosse la coreografia di un balletto.
Gli attori invece come li avete scelti? A parte Marco Giallini, che per ovvie ragioni, non poteva non far parte del cast…
Ho subito avuto le idee chiare sul personaggio di Michele Nobili, per cui ho cercato subito Adriano Giannini, un attore che conosco molto bene e al quale sono legato sia da un sentimento di stima e amicizia. Per il personaggio di Marta invece, abbiamo fatto diversi provini. Quando mi hanno fatto il nome di Valentina Bellè inizialmente ho avuto qualche dubbio. Io la trovo bravissima, ma temevo che non avesse la fisicità giusta per affrontare il suo personaggio. Sono felicissimo di essere stato smentito, mi è bastato il primo incontro. Abbiamo faticato un po’ invece su Salvatore Lovato, perché non riuscivo a trovare un attore capace di restituire quell’equilibrio tra follia e tenerezza che ha quel personaggio. Poi mi sono imbattuto in Pierluigi Gigante e ho scoperto un attore sorprendente, uno di quelli che in scena non fanno mai nulla di prevedibile. E questa imprevedibilità era proprio ciò che cercavo.
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