Alle quattro e mezzo l’onorevole esce dal portone di casa. Si avvia verso Montecitorio a piedi, costeggiando il Tevere. Alcuni uomini gli vanno incontro, lo afferrano. Lui si butta per terra, ma prima arriva un colpo violentissimo, poi altre botte, infine lo trascinano verso un’automobile, una Lancia. L’onorevole si dimena, scalcia, con tutte le forze che ha in corpo. La macchina parte – chi guida suona il clacson all’impazzata, per coprire le urla dell’onorevole – e si dirige verso Ponte Milvio. “Matteotti continua a dimenarsi. Poi, colpito da una lama al torace, muore”, scrive Vittorio Zincone. Una scena da film, senza dubbio. Oppure di una serie, viscerale e complicata, che si svolge dentro il cuore pulsante del nostro essere paese.
Era oggi, cent’anni fa, 10 giugno 1924. In un certo senso, è la data che segna la nascita del fascismo in quanto regime di fatto. Un secolo. Eppure ancora oggi l’assassinio di Giacomo Matteotti è centrale nella vita politica del paese: per come se ne parla, per l’eredità che rappresenta, per la difficoltà che l’Italia ha nel fare i conti con il ventennio, dove la storia appare ancora una ferita aperta invece che una storia condivisa. E poi c’è la questione del Matteotti personaggio: icona dell’antifascismo, vittima per eccellenza, l’uomo a cui sono intitolate mille piazze e vie (l’uomo, anche, di monumenti quasi nascosti e di targhe commemorative emendate, ma questa è solo apparentemente un’altra storia, forse solo apparentemente contraddittoria).
Ecco, il punto è che Matteotti, a dispetto degli stereotipi e dei piedistalli su cui è stata poggiata la sua figura, è un personaggio formidabile. Onnivoro di passioni e di idee, un uomo visceralmente determinato, un “ammirevole rompicoglioni”, un pacifista per convinzione profondissima, un polemista che non perde un colpo e che affronta di petto anche i propri paradossi, un “socialista impellicciato” come lo chiamano con disprezzo i detrattori (era un uomo tanto ricco quanto inflessibile nei confronti della propria classe sociale), il “primo degli antifascisti” nel senso che con rigore e una presenza incrollabile dentro e fuori le istituzioni è il più deciso nel denunciare i crimini e le prevaricazioni del primo fascismo. Quando non è scontato farlo, quando è già un enorme rischio.
Ecco, appunto. “Più che il suo essere vittima di un regime violento, più che l’essere martire, il mito, l’eroe, conta (conterebbe) il suo essere un politico antiretorico, antipopulista (quindi non schierato acriticamente in una curva, malgrado le sue idee forti), con un corposissimo cursus honorum, contrario alla sciatteria, capace di autocritica, rigoroso nelle analisi, coerente nei comportamenti”: così scrive Vittorio Zincone nel suo bellissimo libro Matteotti dieci vite (Neri Pozza editore, pp. 332, 20 euro), facendo capire cosa gli preme di più raccontare del deputato socialista (colui “che li aveva visti arrivare: prima degli altri, più degli altri, diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime”): ed è la sua vorace, coraggiosa, contagiosa, umanità.
Cent’anni dopo, questo ripete Zincone (che di mestiere fa il giornalista, tra le tante cose che fa e ha fatto è autore a Piazzapulita su La7), la figura di Matteotti ci parla anche dell’oggi. È un personaggio affascinante, e generoso in quanto a grandi intuizioni: socialista “gradualista” ossia riformista, ma talmente forte per non dire radicale nelle sue idee da far sbiadire l’accezione che abbiamo ai nostri giorni di riformismo, convinto che sia dalle condizioni del lavoro che bisogna partire per costruire il progresso, convinto che la sinistra per incidere debba essere fisicamente presente sul territorio. E poi: autore di formidabili editoriali, marito appassionato ma quasi sempre assente, uomo ricco di famiglia che propone sistematicamente tasse ai ricchi, animo cosmopolita che viaggia all’estero per studiare, capire, non rimanere fermo (quando viaggiare era tutt’altro che semplice), amministratore locale, polemista, fiscalista, giurista, sindacalista instancabile, deputato.
Produttori di cinema e serie tv, siate avvisati: Zincone ricostruisce la sua vita in maniera dettagliatissima, ma al tempo stesso con passo da sceneggiatore, tanto che questa biografia si legge d’un fiato, quasi come un pageturner appassionante. Le lettere alla moglie Velia (poetessa e romanziera), il Polesine poverissimo, gli scambi anche feroci con i suoi avversari, le sue battaglie politiche e di riforma sociale, la forza che ci mette nel voler smontare i presupposti ideologici del fascismo ma soprattutto le sue pretese economiche, sociali, la determinazione nel denunciarne i crimini… Ma anche i dettagli gustosi, come per esempio la partecipazione dell’onorevole al funerale di Eleonora Duse: che scena, questa qui, dove lui, già minacciato di morte, chiede un passaggio ad un camioncino pieno di camicie nere fingendosi un attore venuto per omaggiare l’ultima diva. Quasi si sente il respiro, l’odore, di quella Italia dei primi due decenni del secolo ventesimo, la sua povertà nelle terre ed il fervore delle polemiche, la ferocia viscerale di quel “primo” fascismo, la sinistra anche allora troppo spesso divisa.
Quello di Matteotti è anche un appassionante thriller, a tratti epico e comunque pieno di suspense: gli allarmi lanciati e rimasti inascoltati, il Mussolini mandante o meno del delitto (due giorni dopo il delitto finge di non sapere cosa sia successo, annota Zincone), l’insabbiamento del delitto, il suo impatto tanto forte che per un momento quasi pare che il regime inizi a scricchiolare, il destino di Velia, seguita costantemente da una decina di poliziotti, finanche le persone che frequenta più assiduamente sono infiltrate da spie.
E certo è una scena madre il discorso alla Camera dei deputati del 30 maggio 1924, con quel passaggio “io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente!” e il “voi volete ricacciarci indietro, noi difendiamo la libertà sovrana del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità” (un passo che secondo Zincone “racchiude in sé la difesa dell’ultimo spazio di libertà che vede pulsare in Italia: la Camera, i suoi riti, la sua capacità di accogliere il dissenso”), un discorso di potenza quasi mitologica, che fa esplodere la bagarre in aula tanto che i commessi si trovano a dover sedare le piccole risse che si sono scatenate. E al termine del quale Matteotti bisbiglia il celebre “…però voi adesso preparatevi a fare la mia commemorazione funebre”.
Ecco, nel paese che sugli schermi grandi e piccoli ama raccontare preti e carabinieri, santi e poeti, padri della patria, grandi inventori e persino industriali, la storia di Giacomo Matteotti è confinata ad un solo film degno di nota, quello di Florestano Vancini del 1973, vincitore di un premio al festival del cinema di Mosca. Un secolo è passato dall’omicidio del “primo degli antifascisti”, e noi siamo di nuovo qui, a contare le schede di chi inneggia alla X Mas, come se ci trovassimo in una timeline impazzita di un multiverso parallelo, mentre in troppi ne sanno poco, sanno poco di quanto il Matteotti delle vie e delle piazze sia carne viva della storia d’Italia. Diceva Anna Kuliscioff a Filippo Turati: “Il povero Matteotti dov’è? È vivo, è morto, è seviziato, fu colato nel Tevere? Domande ossessionanti, che tolgono il sonno e il respiro”. Paradossalmente ancora oggi, che pure le risposte ci sono, sono domande che tolgono il sonno e il respiro.
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