A partire dal 24 luglio, le Olimpiadi di Parigi misureranno la grandezza atletica in finestre di tempo limitate. Noah Lyles correrà i 100 metri comodamente in meno di 10 secondi. Katie Ledecky impiegherà un po’ più di tempo – più di 15 minuti – per nuotare i 1500 metri. Il francese Victor Wembanyama tenterà di lustrare la propria leggenda in incrementi di 40 minuti.
La famiglia NBC (network televisivo statunitense) sfoggerà ancora una volta il solito assortimento di ex atleti, giornalisti veterani e Snoop Dogg per ricordare che uno sport non è solo il gioco stesso, ma tutto il racconto che lo accompagna. Lo sport è intrattenimento, e nel 2024, intrattenimento significa televisione. Questo non sorprenderà nessun ossessionato del piccolo schermo; ultimamente, “televisione” e “sport” sono diventati termini intercambiabili.
La spiegazione principale è semplice: in un mondo di differite, gli eventi live sono il Santo Graal per tutti. È il motivo per cui l’elenco dello scorso anno dei “programmi TV più visti” era composto dal Super Bowl e da un gruppo di trasmissioni NFL (Federazione Nazionale Rugby Americano). È il motivo per cui l’ultimo accordo sui diritti NBA (Associazione Nazionale Basket) è valutato 76 miliardi di dollari. È anche il motivo per cui c’è tanta gioia nell’effetto a catena di Caitlin Clark e Angel Reese che trasformano la WNBA (basket femminile) in un colosso emergente degli ascolti.
Netflix, che ha resistito alla tentazione del “live” per gran parte della sua esistenza, ha iniziato a spingere aggressivamente su questo segmento, passando dagli speciali comici agli infruttuosi finali di reality show fino allo stancante ibrido che è stata la presa in giro di Tom Brady. A partire da dicembre, il pubblico potrà interrompere i propri rituali natalizi – che già includevano le partite natalizie NBA – per guardare partite di calcio live su Netflix.
Naturalmente, Netflix ha addestrato il suo pubblico a considerarlo un centro sportivo per anni, producendo le mie due franchigie preferite di documentari sportivi – o almeno, le mie due “formule” preferite di documentario sportivo.
La bandiera di One Potato Productions di Greg Whiteley ha fatto irruzione sul campo nel 2016 con Last Chance U, uno sguardo sugli allenatori e i giocatori della squadra universitaria di rugby dell’East Mississippi Community College. Il modello strutturale di base – atleti tormentati ma introspettivi che devono afferrare quella che potrebbe essere la loro “ultima chance”; allenatori presuntuosi ma affettuosi; la Grande Partita al culmine di ogni episodio, sempre impeccabilmente girata – si è evoluto in otto anni per far spazio al basket (Last Chance U: Basketball), al cheerleading competitivo (Cheer), al cheerleading sportivo professionistico (America’s Sweethearts: Dallas Cowboys Cheerleaders) e, nell’intersezione perfetta tra sport e intrattenimento, al wrestling (Wrestlers). Guardare uno show targato One Potato è garanzia di intensità, risate inaspettate e ritratti di personaggi ben assemblati.
A questo punto, il più grande e prolifico concorrente di Whiteley e del suo team è Box to Box Films, la società che ha fatto irruzione nel 2019 con Formula 1: Drive to Survive prima di espandersi nel golf (Full Swing), nel tennis (Break Point) e nell’atletica leggera (il recente Sprint). Anche se One Potato è probabilmente migliore nella narrazione, i documentari di Box to Box hanno un’intimità visiva capace di ridefinire il modo in cui percepiamo quegli sport. E il loro casting è notevole: i soggetti presentati tendono ad essere atleti emergenti, e se in precedenza non ti interessava particolarmente ma vuoi assicurarti di avere qualcuno per cui tifare alle Olimpiadi, Sprint ti darà una dozzina di opzioni tra cui scegliere.
Nessuna delle due franchigie esisterebbe senza il venerabile Hard Knocks di HBO, iniziato nel 2001 come uno sguardo sul pre-campionato in uno spogliatoio NFL. Poiché l’appetito del pubblico per questo prodotto si è rivelato insaziabile, HBO e la NFL hanno iniziato a farne due, e ora tre, puntate ogni anno.
È più facile costruire un franchigia quando sai che le persone hanno un investimento integrato, ed è parte del motivo per cui il mio programma sportivo preferito oggi in televisione è Welcome to Wrexham di FX. Far appassionare il pubblico ai Dallas Cowboys (squadra top di rugby Americano) come nei sopracitati esempi è un gioco da ragazzi. Ma trasformare una squadra di calcio gallese di quinta categoria in un fenomeno globale è un risultato più grande, quindi complimenti ai proprietari del Wrexham A.F.C. e produttori esecutivi della serie, Ryan Reynolds e Rob McElhenney.
Welcome to Wrexham ha costruito, in tre stagioni, un profondo legame emotivo tra gli spettatori e Wrexham come squadra e come città operaia. Lo show ha anche continuato ad espandere il suo raggio narrativo. Dedicando spazio alla squadra femminile, viaggiando nella comunità degli espatriati gallesi in Patagonia e usando lo show come piattaforma per presentarci le lotte e i trionfi molto personali della base di tifosi locali, Welcome to Wrexham è diventato il più affidabile e meritevole strappalacrime della TV. Nessuna serie in onda oggi fa un lavoro migliore nell’esplorare la fragilità e la vulnerabilità maschile, o ha fatto di più per celebrare il legame e l’intimità omosociale. Le persone in Welcome to Wrexham si amano semplicemente, e amano dirsi che si amano, e che amano il Wrexham A.F.C., che farà il suo secondo tour americano quest’anno per celebrare quell’amore. (Manteniamo in forma Paul Mullin, ok?)
La realtà, a quanto pare, è più semplice da trasporre in tv rispetto allo sport trasformato in fiction. A parte Ted Lasso, i palinsesti recenti sono pieni di serie a tema sportivo dalla vita breve che hanno generato interesse ma non necessariamente buoni ascolti. Puoi ancora far rattristare e arrabbiare i fan se menzioni Pitch della Fox o, più recentemente, A League of Their Own di Amazon. Winning Time di HBO è stato divertente e ha suscitato qualche polemica tra chi non era disposto ad accettare le licenze drammatiche, ma è durato solo due stagioni. Il recente Clipped di FX ha adottato un approccio complicato e spesso pragmatico alla apparentemente sordida saga dei Clippers, Donald Sterling e V. Stiviano, ma se c’è stato entusiasmo attorno a questa esplorazione dello scandalo e del legame tra razza e ricchezza nello sport, io me lo sono perso.
I lettori più attenti si staranno già chiedendo come ho fatto ad arrivare fino a qui in un articolo sulla “TV sportiva” senza menzionare ESPN, che ha rappresentato l’avanguardia del genere per decenni. Grazie alla serie di documentari 30 for 30, la rete è salita a vette ancora più elevate nel 2016, quando O.J.: Made in America di Ezra Edelman è stato il programma top dell’anno di qualsiasi tipo.
Questa serie continua a produrre documentari, cinque questa estate. L’impatto, tuttavia, è diminuito. Opere come False Positive e No Scope: The Story of FaZe Clan vanno bene, ma sempre più spesso, anche i temi più meritevoli sembrano focalizzati in modo discutibile – troppo affrettati o inspiegabilmente imbottiti.
Il franchise di documentari di punta di ESPN è diventato la serie In the Arena di Gotham Chopra, iniziata con uno sguardo sull’intera carriera di Brady e ora su quella di Serena Williams. Gli show di Arena sono quasi l’antitesi dei documentari 30 for 30 (che tradizionalmente si concentrano su soggetti meno conosciuti, a parte O.J. Simpson), puntando il riflettore su atleti che hanno già vissuto gran parte della loro vita sotto i riflettori. Non sono giornalismo o cinema esplorativo; sono (auto)biografie o spot pubblicitari sui generis. Ciò non significa che non possano essere anche sguardi inebrianti sulla vera personalità di leggende sportive che magari non conoscevi a fondo; significa solo che vedrai esclusivamente quello che queste star vogliono farti vedere. L’agiografia del marchio Arena non si adatta sempre al resto della programmazione di ESPN, che è un mix goffo di sport live, pubblicità per le scommesse sportive e reportage sulle conseguenze dannose delle scommesse sportive sugli sport live.
La vena dominante della narrazione sportiva in questo momento è decisamente nostalgica e retrospettiva; se sei una leggenda del baseball o un titano NBA e non hai ancora avuto il tuo documentario, il tuo agente non sta facendo il suo lavoro. Detto questo, è interessante che i recenti show che hanno offerto maggiori approfondimenti sugli sport di oggi siano stati il non brillantissimo dramma gladiatorio Those About to Die di Peacock e le quattro ore di Charlie Hustle & the Matter of Pete Rose di HBO, che catturano lo scomodo scontro tra competizione, fanatismo e gioco d’azzardo.
Nessuno ha più risorse nella sfera sportiva di ESPN, e basterebbe impegno e chiarezza per riportare 30 for 30 al suo posto di vertice del suo genere. Dio solo sa che ci sono ancora tante storie in attesa di essere scoperte. Chi cerca idee farebbe bene a tenere d’occhio Parigi e Peacock.
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