
Si può usare Shakespeare per restituire un duello privato, un gioco al massacro in cui eros e thanatos si sfiorano senza mai dissolversi? Il risultato è un’operazione che oscilla tra rigore filologico e reinterpretazione postmoderna.
Se esiste un punto di frizione tra la parola e il teatro, tra il dramma e la sua realizzazione scenica, Valter Malosti lo esplora con un’operazione chirurgica su Antonio e Cleopatra, riducendolo a un’essenza scarnificata e depurata. La sua regia al Teatro Quirino sceglie la via della condensazione estrema, eliminando gran parte dell’affresco geopolitico shakespeariano.
L’incipit sembra annunciare una dissacrazione: i due protagonisti emergono da catafalchi marmorei tra risate registrate e applausi ironici, già spogliati della loro grandezza tragica. Ma questo spunto grottesco si diluisce presto, lasciando spazio a un’interpretazione più tradizionale. L’universo di Malosti è una dimensione sospesa, dominata da un dispositivo scenico di Margherita Palli che richiama le architetture dechirichiane, con un’enorme apertura circolare che funge da varco metafisico.
La traduzione curata da Nadia Fusini insieme a Malosti accentua la stratificazione metateatrale della figura di Cleopatra, regina e attrice della propria esistenza, manipolatrice di sguardi e di emozioni. Anna Della Rosa incarna questa ambivalenza alternando ironia e pathos, freddezza e sensualità. Valter Malosti, nel ruolo di Antonio, lavora su un controllo vocale minuzioso, restituendo un condottiero spezzato dalla tensione tra dovere e desiderio.
Il cast di supporto costruisce con precisione le figure che orbitano intorno ai protagonisti, offrendo una solidità drammatica. Tuttavia, l’uso sistematico della microfonazione introduce una distanza che appiattisce l’intensità del parlato. Il tappeto sonoro avvolge la messinscena in risonanze sottili, ma non sempre si integra perfettamente con la tensione narrativa.
La seconda parte dello spettacolo acquista ritmo, ma rimane la sensazione di un’idea incompiuta, di un’intenzione forte che fatica a trovare una corrispondenza nei mezzi scenici adottati. La palette espressiva, con elementi anacronistici come spolverini di pelle rossa e valigie vintage, sembra a tratti un esercizio di stile piuttosto che un reale potenziamento della narrazione.
Eppure, nonostante le sue incertezze, questo Antonio e Cleopatra lascia qualcosa di sospeso nello spettatore, un interrogativo che aleggia sul concetto stesso di potere e di fine, di desiderio e di annientamento. Malosti costruisce un’opera che non offre soluzioni, ma apre faglie interpretative. Non è uno spettacolo che impone una lettura, ma che invita a cercarne una, mantenendo viva la resistenza all’univocità che rende Shakespeare inafferrabile.
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