“Guerra e Pace” al Teatro Argentina: monumentale, visionario e manierista: un allestimento solenne tra fedeltà e rigore

Luca De Fusco affronta Tolstoj con una fantasiosa costruzione la cui monumentalità, tuttavia, a tratti sembra cedere alla ridondanza appesantendo la narrazione invece di ampliarne la forza evocativa.

L’adattamento teatrale di un’opera-mondo come Guerra e Pace rappresenta una sfida colossale: il rischio di ridurre un capolavoro monumentale a una semplice sequenza di quadri emblematici è sempre in agguato. Portare in scena la narrazione epica di Tolstoj richiede un meticoloso equilibrio tra sintesi e rispetto della complessità originale. 

Il romanzo incarna la coincidenza tra la vita individuale e la storia universale, un affresco che intreccia il mondo interiore dei personaggi con gli eventi epocali della campagna napoleonica in Europa. Luca De Fusco si confronta con questo cimento adottando un approccio che privilegia la linearità e il rigore filologico, senza indulgere in tentativi di riscrittura che snaturerebbero la portata universale del testo.

Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Biondo di Palermo in collaborazione con il Teatro Nazionale di Roma e il Teatro Stabile di Catania, si sviluppa lungo le scalinate di un palazzo in rovina, concepito da Marta Crisolini Malatesta. Questa scenografia, di grande impatto visivo, si dispiega in una successione di segni e livelli architettonici che amplificano lo spazio scenico e contribuiscono a una percezione dinamica degli eventi. 

E’ un’opera di fantasiosa costruzione che si presta a sussulti emotivi e apparizioni mutevoli, assecondando la visionarietà di De Fusco, che firma l’adattamento insieme a Gianni Guerrera. Tuttavia, se la monumentalità della scena avvalora l’impianto registico, a tratti sembra cedere alla ridondanza e al manierismo, appesantendo la narrazione invece di ampliarne la forza evocativa.

Per dirci ancora una volta che la guerra è un male antico e inarrestabile, De Fusco sceglie di misurarsi non con una tragedia scritta per il teatro, ma con un capolavoro della letteratura universale. È un percorso che ha già intrapreso con Anna Karenina e che qui si rinnova nel tentativo di trasporre scenicamente un testo che il cinema ha più volte affrontato. Il tema dell’illusione eroica, delle disillusioni, dell’amore vissuto tra sogno e realtà, si dispiega con una costruzione che cerca la sintesi senza rinunciare alla ricchezza del testo originale.

Pamela Villoresi restituisce un’Anna Pavlovna di grande autorevolezza, mentre Mersila Sokoli offre una Nataša credibile, capace di esprimere con delicatezza la nevrotica umoralità del personaggio, trasformando la sua evoluzione in un Bildungsroman teatrale coinvolgente. Raffaele Esposito conferisce profondità introspettiva al principe Andrej, mentre Giacinto Palmarini incarna un Anatòlij vanitoso e fragile, sempre in bilico tra superficialità e opportunismo. 

Il linguaggio scenico adottato si caratterizza per un’impostazione rigorosa e calibrata, con un’attenzione particolare all’equilibrio tra narrazione e azione. Tuttavia, questa precisione si traduce in un’esecuzione che appare talvolta priva di quell’urgenza drammatica capace di rendere il teatro un’esperienza pulsante. La messinscena evita volutamente il pathos eccessivo, costruendo un impianto teatrale solenne ma distante, più attento alla dimensione estetica che alla vividezza emotiva delle interpretazioni.

Se da un lato il rispetto per la monumentalità del testo emerge come elemento dominante, dall’altro l’assenza di tensione e di un reale slancio visionario impedisce allo spettacolo di acquisire una propria autonomia espressiva. Il risultato è un allestimento elegante e rigoroso, che restituisce con fedeltà la grandezza letteraria di Tolstoj, ma che rischia di rimanere imbrigliato in una confezione che privilegia la misura rispetto all’intensità. 

Poco più di due ore di spettacolo condensano il grande romanzo con coerenza e compostezza, in una dimensione che cerca la sintesi senza perdere di vista l’afflato epico della scrittura tolstoiana.