C’era una volta e c’è ancora, in Piazza Beccaria a Milano, a due passi da Piazza Fontana e dal Duomo, un bellissimo teatro all’italiana. Era nato come teatro di corte della famiglia Bolis, e infatti si entrava dalla corte interna: per questo la porta che vedete oggi sulla piazza è poco appariscente. Verso la metà dell’Ottocento una compagnia di marionettisti piemontesi, capitanati da Giuseppe Fiando, si rifugiò a Milano: avevano chiamato la loro marionetta principale Gerolamo, nome che scimmiottava quello di un fratello di Napoleone Bonaparte, e avevano la scomoda abitudine di far parodie politiche. Cacciati senza colpa (se non quella della satira) i teatranti van via e dopo varie peregrinazioni giungono a Milano.
Qui, nel 1868 il teatro della famiglia Bolis fu ricostruito e venne a chiamarsi proprio Teatro Gerolamo. La compagnia di Giuseppe Fiando si insediò lì.
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Da allora per circa novant’anni fu il teatro delle marionette di Milano, e dai primi del Novecento fino al ’57 fu la Compagnia Carlo Colla & Figli a gestirlo. Nel 1958 passò in mano al Piccolo e da allora ci entrarono Strehler e Paolo Grassi, vi recitarono Franca Valeri e Dario Fo, vi cantarono Modugno e Jannacci. Divenne una sala di teatro ancora più legata alla milanesità quando la direzione venne presa dallo scrittore Umberto Simonetta, autore del bellissimo Tirar mattina.
Il 13 febbraio del 1983 a Torino un incendio uccise 64 persone al Cinema Statuto: non riuscivano ad aprire le porte, rimasero bloccate dentro la sala e morirono intossicate dal fumo. Si scoprì così che cinema e teatri avevano bisogno di sicurezza, porte antipanico che impedissero a fatti del genere di succedere ancora. Il Teatro Gerolamo, tutto di legno, non riusciva a stare dietro alle nuove normative di sicurezza, e chiuse i battenti.
Dopo trent’anni cominciarono i lavori di ristrutturazione e dopo più di quaranta, nel 2017, il piccolo Teatro Gerolamo ha riaperto con discrezione le porte. I lavori sono stati diretti dalla architetta Asano Chitose, che ne è tutt’ora direttrice generale e persona di fiducia e riferimento della famiglia Ceschina che dopo i Bolis è da sempre proprietaria del palazzo.
Lo scorso anno, Asano Chitose ha proposto a Piero Colaprico, scrittore dalle ambientazioni tipicamente milanesi (elemento in comune con Umberto Simonetta) con un passato di grande firma di Repubblica di diventarne direttore artistico.
The Hollywood Reporter Roma ha intervistato Colaprico, ma non prima di farsi condurre fra platea, il loggione, palchetti, e quinte, passando dal palcoscenico su tre livelli. I posti sono centosettanta ma non si direbbe: lo spazio sembra ancora più intimo e raccolto. “I microfoni ci sono ma cerco sempre di spingere gli attori a non usarli: chi è in ultima fila è così vicino al palco… e l’effetto è molto più bello” nota lo scrittore-giornalista-direttore, guardando dal palco la platea.
E’ sempre stato vicino al teatro?
In passato ho scritto varie cose per il teatro e in particolare uno spettacolo che si chiamava Qui città di M, con Arianna Scommegna e diretto da Serena Sinigaglia. L’abbiamo fatto anche qui e quando Asano l’ha visto ha voluto sapere chi l’avesse scritto: così ci siamo conosciuti. Mi chiese se avessi altro. Io ai tempi facevo cose di recupero delle osterie. Le proposi Milanoir Milanuit , uno spettacolo che avevo tirato su per recuperare dei soldi per una ex cantante della Mala vera che era rimasta senza niente. Andò benissimo, la gente non voleva andare via: recuperare l’atmosfera dell’osteria qui dentro è molto bello ed è piaciuto. Poi però diventai caporedattore di Repubblica a Milano e quindi non riuscivo più a occuparmi di teatro. In quel periodo la signora Asano mi chiamò e mi disse: “Quando andrà in pensione, mi chiami”. Quando me ne sono andato in anticipo dal giornale l’ho chiamata. Così quando ci siamo rivisti, Asano, mi ha proposto di diventare direttore artistico del Teatro Gerolamo.
Com’è andata la prima stagione?
La stagione scorsa è andata molto bene, ho cominciando portando i Gordi, una compagnia giovane milanese che lavora con le maschere, e hanno fatto il loro Sulla Morte Senza Esagerare, poi ho portato Gherardi, un attore cieco bravissimo, poi novembre è stato dedicato – come sarà quest’anno – a testi tratti da romanzi, quindi Amélie Nothomb, La Gilda del Mac Mahon e altri… Poi abbiamo fatto un recupero di cose milanesi e dialettali. Ho ripreso Elio Pagliarani affidando la regia all’editore di Saggiator Luca Formenton; c’è stato un omaggio a Nanni Svampa; è tornato sul palco Paolo Rossi per una settimana… Poi ci sono stati uno spettacolo su una donna immigrata, un altro su una donna delle case polari di Lorenteggio che viene sfrattata che è piaciuto moltissimo. A febbraio invece abbiamo smontato la platea e abbiamo portato il circo. Si può riassumere dicendo che è stata una stagione soprattutto di prosa, con i primi accenni di una vocazione milanese. Una milanesità di radici, non di nostalgia: radici che ci portano a riflettere su dove siamo oggi.
E della stagione 2023 cosa ci può dire?
A settembre abbiamo aperto con un omaggio a Giovanni D’Anzi, che è stato il paroliere di O mia bela Madonina. Ha scritto brani milanesi e dialettali che hanno fatto il giro del mondo: Nostalgia de Milan, Abbassa la tua radio per favor… La famiglia D’Anzi aveva in casa il pianoforte del maestro. Voleva regalarlo a un’istituzione e ha deciso di regalarlo al Teatro Gerolamo. Abbiamo fatto questo spettacolo-omaggio suonando le canzoni di D’Anzi con il suo pianoforte, e abbiamo messo come sottotitolo “Osteria Gerolamo 1” e da qui in poi lo faremo “on demand”: quando lo spettacolo raggiunge un numero di spettatori utile lo rifacciamo. Poi riportiamo Ottavia Piccolo che era già venuta l’anno scorso, e farà Donna non rieducabile in coincidenza con la data dell’omicidio di Anna Politovskaja.
A dicembre faremo al Gerolamo Osteria Gerolamo 2 con il recupero di un grande cantante e cabarettista milanese, Ivan della Mea, che era famoso per quelli della mia generazione ma di cui oggi si è un po’ persa la memoria. A novembre parteciperemo a Bookcity; poi ci sarà Divine, tratto da Notre-Dame-des-Fleurs di Jean Genet, di e con Dario Manfredini; a marzo ospiteremo solo attrici donne. Insomma, sarà una stagione intensissima.
Ci spiega meglio questo “formato osteria”?
L’idea è questa: l’osteria non era solo il luogo dove si beveva vino e si mangiava salame, ma è il posto dove è nato il cabaret milanese. La Mala aveva una sua forte tradizione popolare di canzoni sue, come La Rosetta, sulla prostituta della Mala uccisa da una guardia. Quindi la tradizione intellettuale (le canzoni di Strehler come Ma mi…) si innestava su questa tradizione, facendo passare testi diciamo malandrini, che raccontavano la Milano del cabaret, delle osterie e della Mala. Allora siccome questo è un teatro del centro di Milano con una storia molto lunga, abbiamo pensato che gli spettacoli che più si richiamano a quelle atmosfere avranno come sottotitolo “Osteria Gerolamo 1”, “2” e così via. Sono spettacoli veri e propri ma traggono una profonda ispirazione da quello che era il clima delle osterie. C’è musica, si cerca di coinvolgere il pubblico.
Alcuni di questi spettacoli, per esempio le osterie, sono produzioni vostre?
Tecnicamente noi non possiamo produrre spettacoli e non abbiamo una nostra compagnia, ma quando voglio fare qualcosa mi appoggio ad altri, fra cui spesso al Teatro Atir come per Milano tra inferno e paradiso, quindi sì, le Osterie e anche altri partono da qui. Chiedo sempre il permesso alla direttrice generale e poi procedo.
Com’è stare in questo mondo, il teatro, che secondo la vulgata è così in difficoltà?
Quello sul teatro oggi è un ragionamento complicato. Diciamo che non è messo bene ma è un malato con grandi capacità di guarigione. E infatti appena finito il Covid le sale si sono riempite: avere sul palco qualcuno che recita per te esprime una grande comunicazione. Il fatto di poter scegliere degli spettacoli e portarli qui è una sfida e ha avuto un’ottima risposta. Si tratta di ricreare un cortocircuito fra palco e platea, vogliamo che la gente venga qui e che poi voglia tornare. D’altra parte, però, quando io vado in giro a vedere e cercare spettacoli non torno sempre contento. Non è un periodo di grandissimi autori teatrali. Il tema oggi è che ci troviamo in una tale assenza di punti di riferimento che interpretare la realtà per chi voglia fare cinema o teatro è molto difficile. E così scrittori, drammaturghi e programmisti fanno fatica e questo nel teatro si vede più che altrove: il teatro è l’agora che rispecchia il mondo contemporaneo e quindi dove si vede di più che manca una chiave interpretativa. Per questo è sofferente.
Le stagioni sono piene di Shakespeare e di classici ma manca un racconto del contemporaneo. Si fa fatica a trovare opere del presente che parlino del presente e che lo facciano in modo convincente. Sogno di trovare un autore che mi parli del presente in maniera efficace.
Ma forse non è colpa solo dei drammaturghi di oggi. Magari le Accademie invece di fidarsi spingono a riproporre cose già viste e a fare solo Shakespeare?
Può essere ma non è materia di un direttore di teatro. Avendo fatto a lungo anche il giornalista mi accorgo che dare un’interpretazione a ciò che ci circonda è difficile. Si dà molto spazio alla cronaca nera perché è fattuale, non devi analizzare. Ma già parlare di opera d’arte, l’interpretazione diventa difficile da dare. Finché ci sono stati punti di riferimento, finché ci sono state ideologie e discorsi filosofici profondi sul bene e il male, c’erano autori che ti raccontavano molto del presente: Buzzati, Sciascia, Calvino… Da quando le ideologie si sono sgretolate e i giornali tradizionali hanno perso il loro compito di interpretare la realtà, non è più così. Ciò che ci può portare a teatro è sapere che ci si troveremo interpretazioni del presente, amore contemporanei, storie di giovani che non riescono a trovare lavoro o la difficoltà di un vecchio espulso dal mondo del lavoro. Ma tutto questo io trovo che non ci sia. Se non in termini di teatro sociale, che però non è quasi mai efficace. È difficile fare opere teatrali potenti sui diritti, bisogna trovare il modo di rendere la storia.
Io rivendico di non essere un uomo di teatro e di essere entrato in questo mondo in punta di piedi, però ho una certa età, qualche libro l’ho scritto e qualche migliaio di libri li ho letti, e mi rendo conto che un racconto potente della contemporaneità nel teatro non c’è ed è quello che sto cercando.
E visto che viene anche dal mondo dei libri, lì dove si trovano le storie che sappiano interpretare il presente?
Sembra che porti acqua al mio mulino, ma oggi non pochi gialli italiani ti raccontano le città, alcune desolazioni, degli ambienti sociali, l’ambiguità dell’essere umano contemporaneo.
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