I primi fiori li portò sua moglie Velia Titta. Portò un bicchiere da casa e ci mise due garofani dentro. Poi la gente cominciò a portarne altri. Poi venne emanata l’ordinanza che vietava di aggiungere altri fiori. I carabinieri si alternavano, erano in due in divisa grigia, prendevano i fiori e li buttavano nel fiume. Lì due giorni prima, il 10 giugno 1924, era stato rapito e ucciso Giacomo Matteotti, sul lungotevere Arnaldo da Brescia.
“Da quel momento, ogni giorno, sul Tevere c’era un tappeto di fiori”, racconta l’attore e autore Maurizio Donadoni che nel centenario dell’assassinio di Matteotti porta in scena questa storia in un documentario teatrale, Matteotti Medley. “Medley perché ci sono molte canzoni d’epoca, uno strumento che aiuta a contornare la vicenda nella cornice minuta della vita di tutti i giorni”. Perché di Matteotti non racconta solo le cose più note. “Ma anche il fatto che gli piaceva andare a fare canottaggio, che era uno sportivo, aveva la macchina, la sua patente era la numero 18 della provincia di Rovigo, che aveva dato dei buffi soprannomi ai tre figli, Giancarlo, Gianmatteo e Isabella che erano Ughi, Strombolicchio e Cialda”.
Più di vent’anni tra documenti, archivi, libri di storia e testimonianze, “perché io non abbandono le mie cose”, e un testo che è diventando sempre più grande, da quando per la prima volta Donadoni si avvicinò a Matteotti. Lo spettacolo sarà al Teatro Oscar a Milano dal 21 marzo al 24 marzo e al Teatro Basilica a Roma dal 14 maggio al 19 maggio. “Che sia civile, che sia drammatico, che sia tragico, il teatro è teatro: un luogo dove nessuno vuole insegnare niente ma tutti imparano”.
Così fu Giacomo Matteotti
Matteotti non è morto subito, spiega Donadoni, ci sono voluti 5-10 minuti. In mezzo al suo sangue, dentro a una Lancia nuovissima, “che per comprarla ci sarebbero voluti cinquanta stipendi”. Una squadra fascista lo rapì con una Limousine Lancia Kappa 2535 blu, sotto al sole, di pomeriggio verso le 16. Il corpo fu seppellito nella campagna romana, trasportato per una ventina di chilometri su quella tappezzeria grigia, e ritrovato solo due mesi dopo. “Che cosa avrà pensato in quei minuti?”, si è chiesto Donadoni tra le carte. “A sua moglie, ai figli, alla madre”. Per lei, che si chiamava Isabella, come la nipotina, era l’ultimo di sette, tra figli e figlie, a morire.
E la moglie? “Sono andato all’archivio centrale dello Stato, dove è conservata la testimonianza di Velia, resa al giudice istruttore. C’è scritto come era vestito, che calze portava, le bretelle color avana, che aveva la calza elastica perché aveva avuto un episodio di flebite”. Lei era a cento metri da dove il marito veniva rapito e ammazzato, nella loro casa a Via Pisanelli 40, con le finestre aperte perché era giugno. Poi lo aspettò fino alle cinque e mezza del mattino, perché gli aveva detto che rientrava. Restò sul balcone del quarto piano poi, “c’è scritto nella testimonianza, mi appisolai un momentino”.
Al risveglio le era cambiata la vita. “Dopo l’omicidio lui divenne un martire, un simbolo, ma quello che mi interessa è non coprire il suo essere una persona normale, il suo essere come noi”, dice Donadoni.
Un eroismo quotidiano
“Dal primo testo teatrale che ho scritto ho una predilezione per le storie di chi si ribella, di chi va contro l’andazzo corrente per manifestare la sua opinione, per difendere la sua idea. Banale? Forse. Ma di certo non tutti lo fanno fino in fondo, giocandosi la vita”, spiega l’autore. O come diceva Pier Paolo Pasolini, gettando il proprio corpo nella lotta.
Così fu Giacomo Matteotti. “Lui che odiava la violenza, che era un pacifista, interveniva ai congressi socialisti, col suo corpo, per difendere i nazionalisti, i liberali, gli altri”. Per consentire a chiunque di esprimere la propria opinione, soprattutto quando era contraria. “Tant’è vero che qualche volta i socialisti, i suoi compagni di partito, alla fine se la prendevano con lui perché li lasciava parlare”.
Donadoni dice che di sicuro nel 1924 avrebbe portato dei fiori sul lungotevere ma che non sa se avrebbe avuto il coraggio di occupare lo spazio di resistenza con il corpo, “per difendere il diritto di andare dalla parte opposta, che è uno dei diritti fondamentali della democrazia”.
E poi, non deve essere stato facile neanche per Matteotti. “Aveva una famiglia, una moglie che adorava, dei figli che portava a cavalcioni in giro per l’appartamento, così lo vide un ragazzo del partito, si legge in un documento, che gli portò a casa un telegramma”.
Un eroismo quotidiano, quello che Matteotti gli ha trasmesso, “forse è l’esempio più bello che qualcuno possa dare, perché dobbiamo essere eroi della normalità”, dice, “perché la rivoluzione passa attraverso la vita di tutti i giorni”. Perché c’è sempre la possibilità di alzare la mano e dire io non sono d’accordo.
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