“Io credo che esistano due modi di fare musica. Uno è quello di raccontare il presente, quello che viviamo tutti, l’altro è un modo ispirante, che punta a portare l’ascoltatore più su di dove può arrivare”, spiega Simona Molinari. La seconda delle due modalità è quella che ha cercato di mettere in atto con il suo ultimo album Hasta siempre Mercedes. Mischia dei brani inediti alle canzoni di Mercedes Sosa, la Cantora del pueblo. Una cantautrice e attivista argentina, che con la sua musica richiamava alla pace e ai diritti invaricabili dell’uomo. Impegnata, innovatrice e troppo poco nota rispetto all’impatto della sua musica sulla società sud americana. Molinari le ridà vita con un lavoro musicale che parte dal teatro – con Hasta siempre Mercedes, uno spettacolo fatto di musica e dialoghi visionari fra Diego Armando Maradona (interpretato da Cosimo Damiano) e Mercedes Sosa (la stessa Molinari) – e arriva fino all’lp.
“Non volevo che questi brani diventassero dei file”, spiega Molinari a THR Roma. “C’è un tipo di musica che ha bisogno di essere raccontata: soprattutto questa, nata da uno spettacolo che è la storia di una vita”. Ed è per questo che l’album è stato rilasciato a poco a poco in digitale, dopo una prima uscita solo fisica. Con la speranza di non svilire la potenza creativa di Sosa, di rapire lo spettatore e “meravigliarlo, fargli conoscere e incuriosirlo”. Che, d’altronde, è l’intento più alto al quale la musica possa aspirare.
Come nasce l’idea di riprendere l’opera di Mercedes Sosa?
Mi sono innamorata della sua storia. Ho letto la sua biografia e ascoltato tutte le sue cose. Questo amore è cresciuto pian pian, prima attraverso lo spettacolo El Pelusa y La Negra, che abbiamo messo su insieme a Cosimo Damiano Damato, e poi con quest’album.
Chissà che non riesca a darle più visibilità anche qui in Italia, dove non è nota come dovrebbe.
Lo spero. Mercedes Sosa è un punto riferimento a livello argentino, ma anche europeo. Non tutti sanno che è passata anche per l’Italia, per Napoli, ha cantato Caruso. Di certo non è mai stata un’artista mainstream, ma tante cantautrici italiane hanno ripreso alcuni dei brani che lei ha reso celebri, come Todo Cambia o Gracias a la Vida di Violeta Parra, che lei ha esportato in Italia mentre era in esilio dal suo paese. In quel momento, con la sua musica, riuscì a raccontare quello che stava accadendo in Argentina negli anni Ottanta.
Uno dei brani che canto nell’album è Nu fil ‘è voce. Una canzone scritta da Bungaro in napoletano, accompagnata da una melodia che abbiamo arrangiato in acustico, che dice che ogni vita si può raccontare anche con un filo di voce.
Tenta di farlo anche lei con la sua musica?
In un momento dove si fa gara a chi urla più forte per per un clic in più, cerco attenzione per dei temi che non possono essere affrontati con la superficialità dei nostri tempi. Il mio è un richiamo all’attenzione, al tempo di dedicarsi a un’opera artistica. Non può e non deve passare sempre per i numeri.
A proposito di numeri, colpisce la scelta di non pubblicare da subito il disco in digitale.
Volevo che uscisse in forma fisica prima di tutto, poi pian piano lo stiamo rilasciando online. Le storie intense non hanno bisogno di essere urlate. Non volevo che questi brani diventassero dei file a disposizione di tutti. È bello che lo siano, per carità. Però ognuno lascia il tempo che trova, perché lo si ascolta con la superficialità che i tempi veloci di oggi richiedono.
Come vorrebbe che venisse accolto il suo progetto invece?
Io credo che esistano due modi di fare musica. Uno è quello di raccontare il presente, quello che viviamo tutti. L’altro è un modo ispirante, che punta a portare l’ascoltatore più su di dove può arrivare. Che vuole meravigliarlo, fargli conoscere, incuriosirlo. L’arte ha il compito di innalzare, di ispirare cose che non vedi intorno a te. Questo è uno spettacolo che parla di valori che possono sembrare retorici ma sono attuali più che mai. C’è bisogno di ispirare le persone, di portarle ad uscire dal teatro con la sensazione che qualcosa di bello può accadere. A cominciare da ognuno di noi.
Mercedes Sosa è l’esempio di una donna che seppe farsi strada nel folk, così come Joan Baez, con cui cantò in più occasioni. Ma ci sono ancora tanti retaggi maschilisti nell’industria musicale?
È tutto sempre più difficile per una donna, anche nel cantautorato. Chi sceglie la tua musica deve distribuirla, capirla, comprenderla, crederci e divulgarla. A farlo sono sempre uomini, e non sempre l’uomo comprende quello che vuole dire una donna.
Io sono sempre stata libera, ho fatto delle scelte sconvenienti e nel momento in cui mi è stato detto “con questa faccia, con questo corpo, dovresti fare questa cosa qui”, io mi sono sempre voltata dall’altra parte e ho detto no. Preferisco avere meno numeri ma fare quello che sento. Mi rende libera, soddisfatta e contenta, nonostante il prezzo che comporta.
A proposito di ribaltare i pregiudizi, ha di recente preso parte alla colonna sonora di Romeo è Giulietta.
È stato un onore. I tempi attuali sono meravigliosi, perché cominciano a vedersi i primi frutti delle battaglie per la parità dei sessi. Le prime che devono cambiare modo di pensare siamo noi. Per quanto indipendente e libera, anche io ho vissuto gli ultimi trent’anni come una sorta di risveglio.
Noi donne millennial eravamo convinte che più di tanto non si potesse fare. Invece oggi le artiste cominciano a non essere più solo cantanti con un bel vestito, ma musiciste, cantautrici, divulgatrici di pensieri e di nuovi modi di pensare. Quando ero bambina, gli unici riferimenti in cui mi potevo specchiare erano cantanti bravissime tecnicamente, con un bellissimo vestito, che eseguivano dei brani tecnicamente impeccabili. Potevo sognare fin lì. Invece è importante il vedersi rappresentate. Piuttosto che passare tempo a cercare il vestito giusto per stare sul palco, imparerei uno strumento in più, ecco.
Ritornando all’intento educativo della musica, anche lei come alcuni colleghi ritiene che la trap sia un genere che veicola misoginia e violenza di genere?
Il problema non è la trap in assoluto, ma il fatto che dialoga direttamente. Il mercato di riferimento della trap sono bambini che vanno dai 10 ai 15 anni. In quel momento un bambino sta formando il suo pensiero critico, e quella non è la realtà, ma solo un modo di vedere di alcune persone. Gli stessi contenuti che io ascolto e posso contestualizzare, un bambino finisce per collocarli nella normalità. A 40 anni lo capisci, a 10 no.
Ci dovrebbe essere il vietato ai minori anche sulla musica. A quell’età i tuoi punti di riferimento devono essere i saldi, non possono essere quelli. Prima arrivavi alla musica tramite il genitore. Ora si lavora di più, i bambini diventano adulti molto prima. Nella maggior parte dei casi hanno in mano un cellulare a 10 anni, e il mercato sa che sono manipolabili.
Poi, oggi i cantanti sono dei veri e propri brand: la musica è diventata molto più legata al business di quanto non lo fosse in passato. Mentre per me è chiaro il brand di qualsiasi che vedo, per un bambino non lo è, e finisce per diventare l’unica realtà possibile. Credo però che questo sia un momento di passaggio: la tecnologia è arrivata all’improvviso, piano piano impareremo a usare questi mezzi e tutto verrà regolamentato.
Crede che ci sia più spazio negli Stati Uniti per chi vuole vivere di musica?
L’America gioca su un bacino d’utenza enorme, l’inglese è una lingua compresa a livello mondiale, quindi la sopravvivenza di chi cerca di fare qualcosa di diverso è garantita dal fatto che i numeri sono diversi. L’Italia gioca solo sull’Italia, quindi chi cerca di discostarsi dal pensiero della classifica fa più fatica o non ce la fa e crolla.
Per fortuna il mercato del live è ancora tanto vivo e si rimane in piedi con quello. Ma è completamente diverso dai numeri che girano sul web, che a volte sono più grossi della realtà. Le ripartizioni non vengono distribuite secondo gli ascolti, ma secondo chi ha più numeri: a meno che non abbia costruito nel tempo una sua credibilità, chi cerca di lottare e andare contro tendenza è costretto a soffrire.
Il rischio dell’andare contro tendenza vale anche per il festival di Sanremo? Lei ha preso parte 15 anni fa con il brano La felicità con Peter Cincotti.
Sono assolutamente contraria a chi dice che tutta la musica di questi tempi sia scadente. Sicuramente la sensazione è di un appiattimento: non c’è rappresentanza di un mercato reale o più spinto. Se l’intento unico è quello di fare i numeri, che il brano passi in radio, che venga lanciato nelle discoteche, cambiano le parole, cambiano due note, ma è chiaro che si farà lo stesso pezzo che gira continuamente.
Non tornerebbe al festival?
Se avessi la possibilità di andarci senza snaturarmi, sì. Lo farei di corsa. Il problema è la paura di sentirsi dire “sì, però devi fare una così”. La libertà di espressione viene prima di qualsiasi numero. Ci credo talmente tanto che sono disposta a tutto ciò che ne consegue.
Nell’album fa una cover di Gracias a la vida di Mercedes Sosa. Per cosa sente di ringraziarla lei, la vita?
Sono riuscita a realizzare talmente tante delle cose che avrei voluto, che la mia vita è un ringraziamento continuo. Ancora di più la ringrazio per i miei rapporti, per i miei amici. Per tutti i momenti in cui ho rischiato di dimenticare chi sono e una serie di persone che ho intorno sono intervenute a ricordarmi chi ero.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma