È un teatro piccolo e accogliente quello di Villa Torlonia a Roma. Nato come teatro di corte nell’Ottocento, oggi ha quasi un’anima off, in contrasto con le sue diversissime e opulente decorazioni. È uno di quei teatri in cui cioè il rapporto tra palco e pubblico si fa fisico, ravvicinato, costante.
A suo modo, è il luogo ideale per rappresentare il fine ultimo di African American Drama on the Italian Stage, la restituzione pubblica del progetto di laboratorio nato dalla collaborazione del Teatro di Roma e dell’Università della Tuscia con il sostegno dell’Ambasciata degli Stati Uniti. Con l’idea cioè di portare dentro il teatro istituzionale, letteralmente in mezzo alla platea, una diversa drammaturgia, in grado di dare spazio, voce e luce ad attrici e attori italiani, soprattutto afrodiscendenti.
Le fasi del progetto
African American Drama on the Italian Stage nasce da un progetto accademico della ricercatrice Valentina Rapetti (Università della Tuscia) – che l’ha spiegato qui a THR Roma – e prende forma all’inizio del 2024, con un bando di selezione del Teatro di Roma per 20 interpreti, di cui 16 afrodiscendenti. L’intento è quello di far aprire le istituzioni teatrali a una rappresentazione più ampia, dimostrando al tempo stesso che esiste un pubblico, finora ignorato, da poter raggiungere.
Dopo una prima sessione di formazione, dal 7 al 21 febbraio 2024 – a cui THR Roma ha potuto brevemente assistere – i venti interpreti, guidati dalla regista Paola Rota, dall’attrice Esther Elisha in qualità di assistente alla regia e dalla stessa Valentina Rapetti che ha curato la traduzione dei testi, il 7 giugno sono andati in scena due testi della drammaturga afroamericana Lynn Nottage.
Perché Nottage? Perché, come ha spiegato Rapetti, il suo è un teatro di prosa contemporaneo, un teatro di parola mantiene tutte le caratteristiche di riconoscibilità del teatro occidentale moderno, ma è nei temi e nel linguaggio che permette di introdurre nuove visioni.
I testi in scena: Puf!
I due testi scelti e tradotti per la prima volta in Italia sono Puf! e Fabulazione, o la rieducazione di Undine. Puf! è un breve testo di circa 30 anni fa (1993): due personaggi, due donne, poco più di venti minuti in scena. Con raffinata ironia, mantenuta anche nella traduzione di Rapetti e nell’interpretazione di Nadia Kibout e Martina Sammarco, il testo è una potente riappropriazione dello sguardo e dell’azione femminile nel contesto dell’abuso domestico. In questo dialogo tra i personaggi di Loureen e Florence, l’uomo non esiste, se non attraverso le loro parole, la loro esperienza. Sparisce in un puf!, appunto, rimanendo come un corpo inerme del reato, pur sempre in scena. Ciò che resta è il dolore, la rabbia, la ferita di una vita vissuta in funzione di un compagno violento e ingrato. E la lucidità per tornare a riappropriarsi del proprio corpo di donna e delle proprie emozioni.
Fondamentale, in questo caso, è la scelta dello spazio. Kibout e Sammarco restano a lungo a contatto con il pubblico. Il loro palco è un tappeto in platea: un’assenza di barriere che accentua la necessità di sospendere il giudizio sui personaggi, senza cercare una morale appagante o rassicurante. Che è poi anche la bellezza in sé di questo testo e dell’interpretazione.
I testi in scena: Fabulazione, o la rieducazione di Undine
Fabulazione, o la rieducazione di Undine è una messa in scena molto più complessa, sia per numero di personaggi sia per temi affrontati. Innanzitutto è un testo del 2004, che nella generale sensazione di instabilità dopo l’attentato al World Trade Center, fa a pezzi il sogno americano con l’arma della satira sociale. Tra protagonista, personaggi secondari e ensemble, sono 17 in tutto gli interpreti sul palco: Alessandra Arcangeli, Yonas Aregay, Nicolò Ayroldi, Alioune Badiane, Greta Bendinelli, Simona Boo, Eny Cassia Corvo, Madeleine Faye, Didi Garbaccio Bogin, Gaja Aurora Ebere Ikeagwuana, Nadia Kibout, Marianne Leoni, Ilaria Marchianò, Martina Sammarco, Chiara Sarcona, Val Wandja, Nour Zarafi.
Divertente, complessa, stratificata, commovente, questa Fabulazione, come suggerisce il termine stesso, è un racconto sempre più complesso e ricco di particolari, di voci, di storie. Contemporaneamente è la storia di un’identità, quella di Undine, costruita, disfatta e rimessa in piedi da lei stessa, in un processo senza fine, in cui a ogni passo la donna continua a scoprire qualcosa di sé e delle persone intorno.
I temi sono quelli estremamente specifici della condizione della popolazione nera a New York dopo l’11 settembre, la rottura ideologica e sociale fra la borghesia e il proletariato afroamericano, o ancora l’alto tasso di incarcerazione, il vicolo cieco delle comunità di recupero, il razzismo sistemico che blocca l’ascensore sociale. Eppure niente di questa specificità impedisce di entrare nel racconto, anzi, ne arricchisce l’esperienza.
Nonostante l’immaginabile difficoltà nel preparare un simile testo, ricchissimo di parola e bisognoso di un grande esercizio di memoria in breve tempo, attori e attrici dell’African American Drama on the Italian Stage riescono a creare un flusso ininterrotto di immagini su una scena quasi vuota, in cui “tutto è finto, ma niente è falso” (direbbe Gigi Proietti). Una scena riempita interamente dai loro corpi e dalle loro voci, con un piccolo e doveroso applauso in più a Eny Cassia Corvo nel ruolo di una potentissima Undine.
Questo perciò è più che altro un invito, è un appello a non lasciare che African American Drama on the Italian Stage resti un esperimento unico nel suo genere, perché ha bisogno di incontrare il suo pubblico. E il pubblico ha bisogno di scoprirlo.
È stata una gioia nuova aver potuto assistere a questa restituzione scenica del laboratorio, ma è nulla a confronto con l’idea di poter vedere Puf! e Fabulazione, o la rieducazione di Undine nel prossimo cartellone del Teatro di Roma. Pensiamoci, pensateci. Perché questi attori e queste attrici sono più che pronti.
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