Il giardino (avvelenato) dell’Eden

Il Ron Howard che non ti aspetti. Una storia feroce, con una straordinaria Ana de Armas. Tratto da una storia vera, Eden racconta il gioco al massacro di un gruppo di uomini in un’isola deserta delle Galapagos

Il film che non ti aspetti. Il TFF, il Torino Film Festival, viene inaugurato da un film di Ron Howard, e pensi al regista di Splash – una sirena a Manhattan, di Apollo 13, di A Beautiful Mind, il regista del Codice da Vinci. O rivedi il viso rassicurante e lentigginoso di Ricky Cunningham. Ricky, la faccia pulita dell’american dream, il protagonista di Happy Days. Lo Jannick Sinner di chi aveva quindici anni negli anni ’70. E allora immagini un film in qualche modo rassicurante, nel quale i buoni sentimenti prima o poi dilagano, allagano tutto. Immagini Eden di Ron Howard. Un feel good movie?

E invece. Non potevi pensare niente di più sbagliato. Eden – presentato al Torino Film Festival ieri in anteprima europea, dopo la prémière al Toronto Film Festival lo scorso settembre: dal TIFF al TFF – è un film con cui Howard, sempre diligente e affidabile regista per lo studio system, si è preso dei rischi. E realizza un film che è un trattato sull’umana ferocia. 

Siamo negli anni successivi alla grande crisi del 1929: la Germania respira la disperazione e la miseria che porteranno all’ascesa rapidissima del nazismo. Un filosofo tedesco, il dr. Ritter (Jude Law) abbandona la Germania, e cerca di rifondare il mondo in un’isola deserta delle Galàpagos, Floreana, insieme alla moglie malata di sclerosi multipla. Vivono di quello che la natura offre, predicano la non violenza. Vogliono un mondo nuovo. 

Probabilmente, lui ha in mente gli esperimenti utopistici delle comuni filosofico-teosofico-artistiche dell’inizio Novecento, come quella di Monte Verità ad Ascona che richiamò scrittori, psicanalisti e artisti, da Carl Gustav Jung a Isadora Duncan, o di Karl Wilhelm Diefenbach a Capri, raccontata in Capri Revolution di Mario Martone. 

Primo scossone a quel tentativo di rifondare una vita primigenia, l’arrivo nell’isola di due giovani sposi entusiasti (Sydney Sweeney e Daniel Brühl), decisi a vivere in un mondo nuovo, secondo la filosofia del loro guru. La convivenza non sarà semplice: il dottor Ritter è tutto tranne che ospitale. E nell’isola manca persino l’acqua, la natura sembra negare persino i bisogni più elementari. A complicare le cose, arriva una giovane donna con due domestici/amanti. La donna (Ana de Armas) dice di essere un’ereditiera, la baronessa Eloise Wagner de Bousquet, e vuole fondare nell’isola un hotel, una sorta di “paradiso delle vacanze” per turisti in cerca di emozioni forti, esclusive. Per arrivare al suo scopo, non esita a mettere tutti contro tutti, a manipolare sentimenti e desideri di chiunque, nell’isola. 

C’è almeno una scena possente, prepotente, tumultuosa: quella in cui la giovane sposa viene colta dalle doglie del parto mentre è sola, e i due amanti della nobildonna le stanno rubando in casa. È una scena brutale, bestiale. Vita e morte si intrecciano, un branco di cani assale la donna. È la rappresentazione di un mondo nel quale l’umano e l’animale non sono differenti. L’essere umano è una bestia, solo la sopravvivenza è il suo scopo. 

Il film procede come per fratture successive: anche chi sembra integro si rivela feroce, capace di tradire, infido. Nell’isola deserta i rapporti sociali e di potere replicano immediatamente quelli della società civile: ci sono padroni, intellettuali, piccolo borghesi. Ognuno a cercare di trovare il suo spazio vitale, il suo lebensraum,  e ognuno a prevaricare l’altro, a opprimerlo, a cercare di sopprimerlo. Con ogni mezzo. 

E l’intellettuale santone, che sta finendo da anni un libro che cambierà la storia dell’umanità, si ritrova bloccato alla frase “lo scopo dell’uomo è”, “lo scopo dell’uomo è…”, e si ferma, a ripetere all’infinito la stessa frase, come il Jack Torrance de “Il mattino ha l’oro in bocca” in Shining di Stanley Kubrick. 

Tutto il film è come immerso in una cupezza desolante, deprimente, come nell’imminenza di una eclissi di sole. La fotografia trasforma la Polinesia in uno scoglio livido ci consegna un’Apocalisse prossima ventura. Viene da pensare ad alcuni film di Werner Herzog, che sapeva restituire allo spettatore il senso della tragedia anche attraverso le immagini – la Lanzarote di Anche i nani hanno cominciato da piccoli, o il documentario Dentro l’inferno, o meglio ancora La Soufrière, che Herzog girò nel 1976 in Guadalupa. C’è il cinema, in questo film di Howard, c’è la letteratura – il personaggio interpretato da Jude Law cita spesso Nietzsche, la “baronessa” è ossessionata dal Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Ma soprattutto c’è una visione impietosa e disperata della bestia umana. 

L’unica speranza umana – e qui viene fuori il “vecchio” Ron Howard – pare essere nella costituzione di un nucleo familiare, che fornisce motivazioni, e dunque ostinazione, tenacia, scaltrezza, capacità di sopravvivere più del delirio mistico/panico e più dell’ambizione sfrenata, sia pure servita da una sopraffina intelligenza manipolatrice. 

E a proposito di “manipolare”. Ron Howard riesce a tirar fuori il meglio dai suoi attori, e in questo caso soprattutto dalle sue attrici. Sydney Sweeney, Ana de Armas e Vanessa Kelby vengono condotte in territori che rasentano il sublime. Vanessa Kirby con due sguardi e poche parole sostiene tonnellate di tensione; lo stesso fa Sydney Sweeney, mentre Ana de Armas – nel ruolo non semplice della “baronessa”, lasciva, sensuale, bugiarda, spietata, manipolatrice – riesce a instillare delle sfumature di umano, di attraente, di amabile anche nell’indifendibile, nell’imperdonabile. La sua performance sinuosa, diversa ad ogni millisecondo,diabolica e miserevole, ci consegna uno dei vilains più divertenti e più memorabili degli ultimi anni. Riesci ad amarla anche mentre la detesti. 

Il film è ispirato ad una storia vera, che ha dato origine a due differenti resoconti dei protagonisti, e che ha dato origine al documentario The Galapagos Affair: Satan Came to Eden del 2013. Margaret, una delle protagoniste della vera vicenda, è rimasta a vivere sull’isola fino alla sua morte, quasi centenaria, nel 2000. 

In fondo Eden è la storia di idealisti incapaci di tener fede alla loro utopia, di manipolatrici incapaci di manipolare fino in fondo, di un senso della vita che sfugge a ciascuno di noi. In questo, il film è forte, vero, potente al di là dei cambi di stile e di ritmo. Eden di Ron Howard ha inaugurato ieri la 42° edizione del TFF al Teatro Regio di Torino. Nell’occasione, Howard ha ricevuto il premio Stella della Mole del TFF. Sarà distribuito nelle sale italiane da 01. 

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