
Sono passati ben 1.196 giorni da quando Netflix, senza troppo clamore e con zero recensioni, ha lanciato uno strano drama coreano su disperazione economica, giochi di sangue e passatempi infantili, diventato in men che non si dica una delle serie più viste di sempre.
Un’attesa lunghissima, anche per gli standard ondivaghi della TV post-COVID e post-sciopero, che mi ha spinto a riguardarmi tutta la prima stagione di Squid Game, preoccupato dal fatto che il suo geniale mix di toni non reggesse il peso delle importanti aspettative.
La bella sorpresa è stata che la prima stagione di Hwang Dong-hyuk funziona alla grande anche senza l’effetto sorpresa. La satira sociale è nerissima, la soffocante atmosfera di disperazione e la vena nostalgica mi hanno di nuovo conquistato. L’unico episodio che non mi era piaciuto – quello con i “VIP”, giustamente criticato – mi è sembrato ancora una volta una parentesi caricaturale.
La seconda stagione di Squid Game, invece, è una delusione totale. Sarà interessante vedere se a rimanere più scottati saranno quelli che volevano solo una copia carbone della prima stagione o quelli che si aspettavano di scoprire qualcosa di più sulla mitologia e sul mondo della serie. Perché, in qualche modo, in sette episodi, la seconda stagione di Squid Game non fa né l’una né l’altra cosa. Manca il divertimento e la bizzarria che impedivano alla prima stagione di affogare nella miseria, e non ci sono nuovi dettagli o spunti sulla natura del Gioco.
Diciamolo, la seconda stagione di Squid Game è deludente, ma non è orribile e non tradisce lo spirito della prima (Netflix ci ha già pensato con il reality Squid Game: The Challenge). A dire il vero, non è nemmeno una stagione vera e propria. È un preludio di sette episodi a una terza stagione conclusiva prevista per il 2025. Un ponte lunghissimo che non ha la solidità strutturale per giustificare gli inevitabili paragoni con L’Impero colpisce ancora da parte dei suoi difensori. Sembra più il ponte di vetro nell’episodio dei “VIP”, con Hwang e compagnia bella che calpestano una lastra non temperata e precipitano nel vuoto.
La seconda stagione, come la prima, scritta e diretta interamente da Hwang, riprende da dove ci eravamo lasciati nel finale: Gi-hun (Lee Jung-jae), l’anima a pezzi nonostante abbia vinto 45,6 miliardi nel Gioco, rinuncia al biglietto aereo per gli Stati Uniti per vedere sua figlia e giura di trovare l’inafferrabile Front Man (Lee Byung-hun) e di porre fine al Gioco una volta per tutte.
La trama fa un salto in avanti di due anni. Gi-hun è ancora alla ricerca di un modo per raggiungere il Front Man o il Gioco. Il suo obiettivo principale è il Reclutatore (Gong Yoo), che nella prima stagione lo aveva avvicinato in metropolitana, lo aveva convinto a partecipare a sfide sempre più violente del gioco “ddakji” e gli aveva consegnato il biglietto da visita per partecipare al Gioco. Il Reclutatore non è facile da trovare per Gi-hun.
Nel frattempo, l’agente di polizia Jun-ho (Wi Ha-joon), che avevamo lasciato ferito da un colpo di pistola sparato dal Front Man, suo fratello, è vivo e vegeto e si occupa di traffico. Nel tempo libero, cerca di trovare prove dell’esistenza del Gioco in cui la gente comune gioca a giochi infantili fino alla morte sotto lo sguardo lascivo dei VIP con le maschere di animali.
Alla fine, sappiamo che Gi-hun tornerà sull’isola e nel Gioco. Lo sappiamo perché è l’unica cosa che ha senso e perché è quello che Netflix ha promosso a spada tratta. Ma quanto ci mette per questo “reset”? Mamma mia, molto più di quanto ci si aspetti.
La prima stagione di Squid Game aveva un suo ritmo ben preciso. Il pilot è quasi a metà prima che inizi il primo round di “Un, due, tre, stella!”, e il secondo episodio è praticamente senza giochi. Ma quel tempo serve a far capire agli spettatori il livello di disperazione non solo di Gi-hun, ma di tutti i personaggi, mettendo in scena la disuguaglianza economica della Corea del Sud di oggi.
La seconda stagione impiega due interi episodi per tornare al Gioco, ma quello che succede in quel lasso di tempo non è universale come “Ecco un tizio che ha toccato il fondo”. È “Ecco un tizio che vuole la seconda stagione di una serie TV”. Per due ore, sembra che Squid Game stia preparando il terreno per far collaborare Gi-hun e Jun-ho, che si sono incontrati solo brevemente nella prima stagione. Ma al terzo episodio, Jun-ho torna a essere una distrazione. Riguardando la serie, mi sono reso conto di ricordare il 90% della trama di Gi-hun e il 5% di quella di Jun-ho. E qui la situazione non cambia: il personaggio è solo un freno alla narrazione.
Sappiamo che Gi-hun tornerà nel Gioco, e fargli impiegare così tanto tempo è una negligenza narrativa. Ma una volta che ci torna, il Gioco subisce una trasformazione radicale che la serie non è abbastanza furba dal gestire.
L’ironia di fondo del Gioco, come presentato inizialmente, è che è grottesco, ma in un mondo ingiusto è fondamentalmente equo. Il Front Man chiude un occhio sul traffico di organi, ma si infuria quando scopre che alcune guardie rosa hanno rivelato a un partecipante quali saranno i giochi successivi.
Ma il ritorno di Gi-hun nel Gioco elimina l’equità e lo trasforma da una competizione tra 456 giocatori, ognuno dei quali è l’eroe della propria storia tragica, in una lezione elaborata per una sola persona, in cui 455 giocatori sono lì per partecipare ed essere uccisi per punire Gi-hun. È un nichilismo appropriato? Certo! È altrettanto soddisfacente? Neanche lontanamente.
Gli altri partecipanti non hanno flashback questa volta e a malapena hanno una storia. Sono stereotipi tragici: un ex soldato (Hyun-ju, interpretato da Park Sung-hoon) che vuole completare la sua transizione di genere; una madre (Geum-ja, interpretata da Kang Ae-shim) e un figlio (Yong-sik, interpretato da Yang Dong-geun) che cercano di saldare i suoi debiti di gioco; un ex cripto-guru (Myung-gi, interpretato da Im Si-Wan) finito sul lastrico e la sua ex fidanzata incinta (Jun-hee, interpretata da Jo Yu-ri).
Invece di costruire relazioni tra i personaggi all’interno del gioco, la seconda stagione è piena di relazioni preesistenti, tra cui quella tra il rapper (Thanos, interpretato da Choi Seung-hyun) rovinato dallo schema crypto di Myung-gi e Jung-bae (Lee Seo-hwan), un altro amico di Gi-hun. Il dramma è già presente e quindi meno meritato.
Il Gioco, una volta che Gi-hun è lì, è molto simile. Non sembra che nessuno abbia dato una mano di vernice fresca al set in stile Escher, e i nuovi giochi non sembrano nemmeno in tema. Nella prima stagione, a un certo punto, si scherza sui tanti giochi infantili che potrebbero essere usati, ma anche con tutta questa scelta Hwang sembra già a corto di idee.
Da questo punto di vista, si capisce quasi perché il Gioco diventa secondario nella nuova evoluzione della stagione. Hwang ha chiaramente capito che i VIP non piacevano al pubblico e in questa stagione non si vedono. In qualche modo, però, ha anche avuto l’idea che quello che era piaciuto di più era la parte del pilot in cui i giocatori votavano se interrompere o meno il gioco. Una nuova regola prevede che i giocatori votino a ogni singola competizione, e il processo di voto occupa tanto tempo quanto i giochi stessi, senza un ritorno paragonabile. Se voglio essere generoso, posso spiegare come questo diventi un commento su quanto spesso la democrazia costringa le persone a votare contro i propri interessi, individuali o collettivi, un concetto applicabile alla Corea del Sud ma in realtà a qualsiasi democrazia. È un punto che viene ribadito fino alla nausea.
La democrazia che sostiene la serie, è tetra. E tutto all’interno dello show è diventato tetro. Lee Jung-jae ha vinto un Emmy per la prima stagione con un ruolo caratterizzato da una straordinaria dinamicità. Tutto nella sua performance era “grande”, dalla commedia al dramma, perfettamente conciliati alla fine. Lee è un attore abbastanza bravo da rendere l’aspetto ossessionato di Gi-hun uno sviluppo coerente del personaggio, ma il risultato è meno interessante. A parte Choi, che rende Thanos imprevedibile e vibrante (anche se mai vicino a una persona reale), ogni nuovo personaggio sembra una brutta copia di qualcuno che abbiamo perso nella prima stagione e la serie soffre enormemente dell’assenza del furbo Il-nam (O Yeong-su), della tormentata Sae-byeok (Jung Ho-yeon) e di altri ancora.
Tra i nuovi volti, Jo e Kang riescono quasi a rendere memorabili i loro personaggi. E se non hai personaggi memorabili, ucciderli non fa alcun effetto. Quindi, fino al sesto episodio – per me, l’unico che eguaglia l’effetto viscerale della prima stagione – c’è tanto sangue, ma zero impatto.
E questo senza parlare delle scelte discutibili legate al fatto che un attore cisgender, Park Sung-hoon, interpreti un personaggio trans poco sviluppato. Posso capire e riconoscere che il semplice fatto di includere un personaggio trans in un drama prodotto in Corea del Sud sia di per sé un passo avanti significativo. Ma per una serie TV internazionale nel 2024, ci sono delle aspettative di base che non vengono soddisfatte. Entrambe le cose possono essere vere.
Allo stesso modo, può essere vero che la maggior parte delle lezioni che Hwang sembra aver tratto dalla prima stagione, sono state mal applicate, ma sono curioso di vedere se gli elementi più creativi, i colpi di scena e le rivelazioni che stravolgono il format saranno riservati alla terza stagione.
Ciò che era eccitante nella premessa della serie non è andato perso del tutto (l’energia del sesto episodio lo conferma); lo stile rimane intatto, anche se stagnante; e la performance di Lee rimane solida, anche se meno coinvolgente di quella che aveva attirato il pubblico all’inizio.
Non è un problema di fondo, ma la seconda stagione di Squid Game semplicemente non funziona.
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