Il quaderno del Critico: i 76esimi Primetime Emmy Awards oscillano tra freschezza e stanchezza

Shōgun e Hacks hanno trionfato mentre la TV Academy tentava di riconquistare la magia degli Emmy di gennaio, ma con tiepidi risultati.

Non ho idea se l’espressione “run it back” (ripetere l’impresa) abbia avuto origine nello sport, ma la sento più spesso in quel contesto, quando un giocatore, un allenatore o un proprietario esprime il desiderio di mantenere tutti gli elementi chiave per ripetere il successo della stagione precedente. A volte funziona e nasce una dinastia. Altre volte, però, tentare di ripetere l’impresa si rivela un flop, dimostrando quanto fosse effimero il trionfo iniziale.

A gennaio, i 75esimi Primetime Emmy Awards, ritardati dallo sciopero, si sono rivelati uno dei migliori eventi di premiazione degli ultimi tempi. Presentato da Anthony Anderson, lo show è stato ricco di momenti memorabili che riflettevano amore e orgoglio per il mezzo televisivo.

È stata un’accoglienza così gradita (per una trasmissione spesso vittima di complesso d’inferiorità artistica, essendo legata alla TV), che non sorprende affatto (se si reputano i pessimi deludenti un’anomalia) che la TV Academy abbia deciso di riproporre l’impresa.

La trasmissione dei 76esimi Primetime Emmy Awards di domenica sera vantava gli stessi produttori (Jesse Collins, Dionne Harmon, Jeannae Rouzan-Clay), lo stesso regista (Alex Rudzinski) e lo stesso approccio affettuoso e riflessivo alla televisione. Non è stato un disastro.

Direi che, rispetto agli standard generali delle trasmissioni degli Emmy, è stato uno show superiore alla media. Ma è stato comunque una delusione. A causa della formula ripetuta solo nove mesi dopo gli ultimi Emmy, lo show di domenica è sembrato stanco e persino monotono. La nostalgia non ha avuto lo stesso impatto, i volti noti non avevano la stessa vitalità e troppi dei vincitori, soprattutto nella prima metà dello show, sembravano aver esaurito le cose da dire o perso l’entusiasmo di trovarsi quella sacra posizione.

In realtà è stato uno spettacolo pieno di sorprese, nessuna più grande della culminante vittoria di Hacks di Max nella categoria miglior serie comica, arrivata come sfavorita contro The Bear di FX/Hulu (che aveva vinto a gennaio) e competendo con una seconda stagione ancora più acclamata della prima. Il senso di inevitabilità è aumentato solo quando Ebon Moss-Bacharach e Jeremy Allen White hanno vinto il loro secondo Emmy consecutivo e Liza Colón-Zayas ha prevalso come miglior attrice non protagonista, nonostante una seconda stagione in cui il suo personaggio era stato ridotto a una comparsa.

La vittoria della Colón-Zayas è sembrata quasi più una conferma per la controversa terza stagione, in cui Tina aveva diversi episodi di rilievo. Inoltre, la Colón-Zayas sembrava sorpresa e grata in modo reale, cosa che non si poteva dire per i discorsi “già sentiti” di White e Moss-Bachrach.

Ma poi Jean Smart ha battuto Ayo Edebiri come miglior attrice protagonista e i creatori di Hacks hanno ottenuto una sorprendente vittoria nella sceneggiatura, superando lo script di “Fishes”, che aveva valso a Christopher Storer di The Bear un Emmy per la regia. Eppure, avrei scommesso su The Bear per la vittoria come miglior serie, motivo per cui non partecipo mai ai pronostici sugli Emmy. La vittoria di Hacks è da recepire come una critica alla terza stagione di The Bear? Una critica sulla scelta di collocare The Bear nella categoria commedia, un dibattito ancora aperto che è stato oggetto di una pungente battuta nel monologo di apertura di Eugene e Dan Levy? Forse un po’ di entrambe le cose, ma io preferisco una spiegazione più semplice: la terza stagione di Hacks è stata eccellente (e Hollywood ama celebrare gli show che la riguardano).

La vittoria di Shōgun come miglior serie drammatica era inevitabile dal momento in cui FX l’ha trasferita fuori dalla categoria miniserie, iniziando lo sviluppo di future stagioni. Ma ha perso in alcune in alcune categorie, generando diversi dei più grandi colpi di scena della serata, come Billy Crudup che ha battuto Tadanobu Asano come miglior attore non protagonista e Will “Nonostante il mio nome, vengo in pace” Smith che ha vinto per la miglior sceneggiatura drammatica (Slow Horses). C’è stata quindi almeno un po’ di incertezza a metà dello spettacolo, ma è stato solo temporaneo. Quando Hiroyuki Sanada e Anna Sawai hanno celebrato le loro entusiasmanti vittorie, la consacrazione da record era completa.

Le sorprese sono d’aiuto agli spettacoli di premiazione perché mantengono il pubblico col fiato sospeso e perché i vincitori stupiti fanno spesso i migliori discorsi. Ho adorato vedere quanto fosse emozionato Lamorne Morris per aver battuto pezzi grossi come Robert Downey Jr. come miglior attore non protagonista in un film/miniserie/o altro per Fargo, e quanto Richard Gadd, autore/creatore/protagonista di Baby Reindeer, fosse sbalordito per ciascuna delle sue tre vittorie. Gadd ha richiamato l’attenzione del pubblico quando ha riconosciuto che Hollywood potrebbe essere in una fase di stallo, ma ha avvertito: “Nessuna crisi si risolve senza una volontà di correre rischi”. D’altra parte, ho apprezzato anche la sincera gratitudine espressa sia da Jean Smart che da Jodie Foster, nessuna delle quali dovrebbe mai essere sorpresa di vincere qualcosa.

E il discorso più adorabilmente sconnesso della serata è giunto dal vincitore meno sorpreso: John Oliver, che vince ogni anno ed era in una categoria con solo un altro show. Eppure è riuscito a chiamare suo figlio Hudson “Husband” (marito), per poi trovarsi a lottare contro la musica durante  un tributo dolce-amaro al suo cane: “Questo è per tutti i cani. Tutti i cani. Siete delle brave cucciole e dei bravi cuccioli. Meritate tutti un biscottino. ORA MANDATEMI VIA.”

I discorsi sono, come sempre, una parte dello spettacolo in cui i produttori devono incrociare le dita. Non sono una scelta di produzione.

Per questo spettacolo, le scelte di produzione erano per lo più ben intenzionate e insipide.

Più di ogni altra cosa, lo spettacolo di gennaio aveva una obiettivo e un programma coerenti. Questo spettacolo? Non proprio. C’era il tributo ai classici, con il ritorno di varie amate star televisive, troppo recenti però, che pronunciavano discorsi scritti male su dottori, avvocati, madri e padri, davanti a set ricreati che mancavano di vivacità. Ho passato più tempo a cercare di capire la strategia di casting per quei segmenti piuttosto che a godermeli.

Alcune reunion, invece di offrire momenti toccanti o significativi, sembravano più tipo: “Ops, probabilmente avremmo dovuto omaggiare The West Wing e Happy Days a gennaio”. A gennaio, quando quasi tutti i vincitori erano scontati, le reunion e i tributi erano il cuore dello spettacolo. Quest’anno, troppo spesso, sono stati un peso.

La trasmissione ha continuato la lotta infinita degli spettacoli di premiazione con l’immancabile segmento “In Memoriam”. L’introduzione stranamente pomposa di Jelly Roll alla sua discutibile interpretazione del brano “I Am Not Okay” è stata un brutto inizio, ma almeno il resto del segmento è stato convenzionale, con tanto di pubblico non abbastanza silenzioso.

Ma poi, invece di una sfumatura malinconica prima della pubblicità, Jimmy Kimmel è salito sul palco e ha improvvisato un tributo a Bob Newhart che non era scritto male, ma era totalmente in contrasto con l’atmosfera nella sala, con un pubblico che non sapeva se fosse il momento giusto per ridere del fatto che Jon Stewart vince spesso agli Emmy. Presumo che qualcosa sia andato storto con la scaletta, facendo sì che il tributo di Kimmel e Newhart fosse inserito dopo il segmento In Memoriam anziché prima, perché non posso credere che fosse una scelta voluta.

Parlando di scelte, passiamo alla mia nota positiva preferita. Gli spettacoli di premiazione hanno smesso di consegnare premi onorari durante la trasmissione principale. Questo è stato e continua ad essere un errore. Consegnare a Greg Berlanti il Governors Award durante lo show principale è stata la scelta giusta, il suo discorso è stato fantastico e spero che altri spettacoli, specialmente gli Oscar, si rendano conto che un premio onorario o due possono essere un vero valore aggiunto. Il discorso di John Leguizamo, in cui ha parlato dei progressi della televisione nella diversità, è stato un po’ troppo lungo e un po’ autocelebrativo, ma ho apprezzato l’importante lezione di storia che ha impartito.

Infine, che ne dite di Eugene e Dan Levy come presentatori? Io li ho trovati bravi, e avrebbero potuto funzionare ancora meglio in una trasmissione più efficace. Il loro monologo è stato un po’ impacciato all’inizio, ma verso la fine hanno tirato fuori delle buone battute e i loro interventi, nel complesso, sono stati sottilmente affettuosi e simpatici in un modo che ho apprezzato. Erano, per usare le loro parole, estremamente “canadesi” come conduttori.

Ci sono stati altri momenti memorabili nella presentazione? Le star di SNL che scherzavano sul fatto che Lorne Michaels non vincesse mai, per poi rendersi conto che aveva vinto innumerevoli volte, hanno strappato qualche risata, specialmente quando Maya Rudolph ha pronunciato la parola “derubato”. Ma perché è stato trattato come una “reunion”? Le tre star di Only Murders in the Building continuano a ottenere un notevole riscontro da quella che è diventata sicuramente una gag ripetitiva. E ho apprezzato Diego Luna e Gael Garcia Bernal che presentavano quasi interamente in spagnolo, giusto per cambiare.

La verità è che gli spettacoli di premiazione sono generalmente più brutti che belli, e quando qualcosa funziona, la tendenza è quella di sfruttarlo fino allo sfinimento. Come quell’anno in cui gli Oscar senza presentatore sono andati davvero bene e hanno detto: “Wow, non ci serve un conduttore!” E poi si sono resi conto che invece ne avevano bisogno. Ripetere la formula per questa trasmissione degli Emmy aveva senso. Potrebbe aver senso farlo di nuovo. Ma non l’anno prossimo.

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