Dieci capodanni: la serie di Sorogoyen, su Raiplay, sta godendo di un sorprendente passaparola sui social

È la storia di Ana e Oscar che si snoda attraverso dieci finali d’anno solare senza mai trovare una fine: come ogni relazione tossica che si rispetti

Ci sono relazioni sentimentali che insistono nella nostra vita per curiose eternità anche quando la relazione si è estinta, o prosciugata o ha subito un infarto irreversibile: come se l’immagine del partner si fosse insediata come un virus inestirpabile nella nostra esistenza senza possibilità di cura. Un fantasma, come direbbero i terapeuti.

Che sia questa la situazione in cui si trovano i due protagonisti di Dieci capodanni creato da uno dei talenti più in forma del cinema spagnolo contemporaneo, Rodrigo Sorogoyen, è evidente alle puntate sei e sette di questa serie, visibile su Rai Play che, grazie ad un passsaparola puramente social e mediatico, sta aggregando un attenzione collettiva inconsueta: è in questi due episodi, infatti, che i due protagonisti, dopo aver innescato una storia d’amore alla fine dell’adolescenza e averla vissuta con una convivenza ricca di intensità e fragilità, passione e allegria, è proprio in questi due episodi, dopo che i due hanno smesso ogni contatto o interazione reale per interi anni solari, che entrambi sono mostrati dall’autore in un colloquio immaginario con il partner non presente fisicamente. Come se, in fondo, pur non vedendosi più, sentissero il bisogno di confrontarsi e raccontarsi la reciproca serie di cause ed effetti che domina la loro vita come quella di qualsiasi altro. 

Questo racconto che si snoda per dieci episodi e altrettanti capodanni che coincidono con la prossimità dei loro compleanni (Ana, Iria del Río, il primo di gennaio; Óscar Francesco Carril, 31 dicembre) suonerà familiare al cinefilo italiano che ha nella memoria film come Un amore di Gianluca Tavarelli e Dieci inverni di Valerio mieli, che hanno una struttura quasi identica: la lunga storia di un affaire vista attraverso lunghe pause ed ellissi punteggiata da incontri fuggevoli e cruciali. 

Dieci capodanni sembra innanzitutto offrirsi come cronaca di persone normali impegnate in “una quotidianità da vivere e da risolvere per cercare di essere felici e realizzare i propri desideri”, come scrive Giancarlo Liviano D’arcangelo  su “Rivista Studio”, ma in realtà il potere del suo adescamento che ti porta a passare ore di fronte allo schermo nel più classico dei binge watching, è dato dal contrario, dalla forza oscura con la quale i due non riescono né a dimenticarsi né a vivere assieme.

La sceneggiatura ha la sua migliore consistenza nella ricchezza di voci, figure e situazioni del contesto in cui il film li assorbe: l’indeterminatezza sul lavoro di Anà, che la porterà, paradossalmente, a gestire un ristorante di successo,  la dedizione agli altri del lavoro di medico di Oscar che contrasta senza grazia col peso della sua solitudine, il lutto inevitabile dei genitori, la fragilità psichica di un amico, l’abbandono accidentale alla risacca della vita che porta lei ad una famiglia con un altro e lui a relazioni superficiali e provvisorie ed entrambi in giro in un’Europa, forse, per la prima volta, raccontata come un paesaggio condiviso: Madrid, Lione, Parigi, ecc.. 

Ma quando i due sono faccia a faccia, la regia alterna con coraggiosa intuizione la freschezza gracile dell’improvvisazione degli attori al male oscuro di un’attrazione fatale, proprio quella che genera il più denso erotismo, che blocca entrambi in una immagine che l’uno rimanda all’altro e dalla quale nessuno dei due riesce a fare a meno.

Fino all’ultima puntata. Quando la cerimonia clandestina di quella relazione esibisce senza mezzi termini la verità della sua tristezza e la commozione di una fraternità e di un romanticismo che solo gli amori tossici, quelli di cui sogniamo di non liberarci, riescono a produrre.