Sarajevo Film Festival: Vladimir Perišić, regista di Lost Country, riflette sul ritorno del fascismo in Europa

"Il mio film è anche un avvertimento. Queste idee non sono morte e possono tornare, rapidamente e ferocemente". La pellicola analizza le proteste studentesche fallite contro Slobodan Milošević del 1996

Per Lost Country, il regista Vladimir Perišić ha scavato in profondità in una storia molto personale. Il film, che è stato presentato in anteprima alla Settimana della Critica di Cannes prima di essere proiettato al Sarajevo Film Festival, segue un giovane adolescente serbo di Belgrado che viene coinvolto nelle proteste studentesche di massa contro il regime autoritario del presidente serbo Slobodan Milošević.

Le proteste, iniziate a Belgrado nel 1996 e dilagate in tutto il Paese, furono organizzate in risposta ai brogli elettorali: nelle elezioni locali del 1996, il partito socialista Serbo di Milošević aveva perso diverse città chiave ma, come Donald Trump, si rifiutava di accettare i risultati.

“Le proteste sono durate più di tre mesi, il che, da quanto ho potuto verificare, ne fa le più lunghe proteste studentesche nella storia d’Europa, e avevano un’atmosfera davvero carnevalesca”, ricorda Perišić, che all’epoca aveva 19 anni e si lasciò coinvolgere dallo spirito di disobbedienza civile. “Non si trattava tanto di discorsi politici o di ideologie, quanto di invertire i rapporti di forza nella società, come nel carnevale. Per me, e per molte persone all’epoca, ha innescato una sorta di rivoluzione interiore”.

Nel film, le proteste hanno un impatto simile sul quindicenne Stefan, interpretato dall’esordiente Jovan Ginic, che si trova in bilico tra gli sconvolgimenti nelle strade e a scuola, tra i suoi compagni di classe contrari a Milošević e la sua lealtà verso la sua famiglia di convinti sostenitori del presidente. La stessa madre di Stefan, Marklena, è portavoce del regime. Ogni sera va in televisione per diffondere le bugie del governo. Stefan la sente parlare al telefono, mentre pianifica una repressione della polizia per soffocare violentemente le manifestazioni.

“Anche mia madre faceva parte del governo di Milošević, anche se era nel dipartimento della cultura, quindi non una portavoce”, dice Perišić, “ma ho avuto la stessa esperienza di Stefan da bambino, crescendo in una casa politica e vivendo questo conflitto di doppia lealtà, tra la fedeltà che hai verso i tuoi genitori e quella verso una sorta di imperativo morale interiore. La politica del nazionalismo serbo si basa sulla lealtà familiare, sull’idea di appartenere per sangue a un gruppo. È la base di tutta la politica di destra, in realtà. A me interessava sovvertire questo concetto”.

Per trovare il suo Stefan, Perišić ha setacciato il Paese. “Abbiamo incontrato quasi 2.000 ragazzi, ma non riuscivo a trovare quello giusto. Stavo diventando disperato”, ricorda. Nella sceneggiatura originale, Stefan, come Perišić, giocava a pallanuoto, e il regista decise di fare un sopralluogo in alcuni club di pallanuoto di Belgrado.

“Siamo arrivati in un club, il Red Star, e l’allenatore ha chiamato tutti i ragazzi, che si sono avvicinati al bordo della piscina, il che è stato veramente bello, sembravano dei pesciolini”, racconta Perišić. “Ho tirato fuori il mio telefono per scattare una foto. Tutti i bambini guardavano l’allenatore, tranne uno. Guardava dritto verso di me. Ho detto ai miei assistenti: ‘Vediamo quel ragazzo’. Era Jovan”.

Perišić ha trascorso nove mesi a provare con l’attore esordiente prima di iniziare le riprese. “Non è stata una vera e propria prova. Non gli ho fatto leggere il copione. Gli facevo solo delle domande, come ‘cosa fai quando litighi con tua madre?’, e lo riprendevo”, racconta. “Quando siamo arrivati a girare, ho filmato in ordine, cronologicamente, e ho trattato il materiale come se stessi girando un documentario. Se gli attori facevano qualcosa di diverso da quello che c’era scritto nel copione, che portava le cose in una direzione diversa, cambiavo il copione. È per questo che amo lavorare con i non attori: ti rende umile. Scopri la storia insieme a loro”.

L’approccio documentaristico si è esteso alle location e alla scenografia. Non potendo permettersi costumi o scenografie d’epoca – “non avevo il budget per fare un’epopea storica in stile Visconti, e comunque non mi piacciono molto quei film, hanno un’atmosfera da museo/antichità” – Perišić ha invece trovato strade e appartamenti di Belgrado immutati dalla fine degli anni Novanta.

“È per questo che ho girato così tanto nei cortili”, dice. “Il quartiere in cui ho filmato è cambiato molto, ma solo di facciata. Se si va nei cortili, sembra esattamente lo stesso. Si potrebbe pensare di essere tornati nel 1996”.

Per Marklena, la portavoce politica, Perišić ha scelto l’opposto di un esordiente, scegliendo Jasna Durićić, la star serba meglio conosciuta per il suo ruolo di traduttrice bosniaca che cerca di salvare la sua famiglia dal massacro di Srebrenica nel dramma di Jasmila Zbanic candidato all’Oscar Quo Vadis, Aida?.

“La mia idea con Jasna era che, come politica, il suo personaggio recitasse tutto il tempo”, dice Perišić. “Quindi, anche quando torna a casa e sta con suo figlio e la sua famiglia, questa madre continua a recitare. Ma l’approccio documentaristico era lo stesso. C’è una scena in cui Stefan chiede a sua madre se il governo ha truccato le elezioni. Lei risponde di no. Sta mentendo. E poi si inginocchia davanti a lui. Questo non l’ho mai scritto. È stata scritta direttamente da Jasna. È un genio. Girandolo, mi è sembrato un documentario, come se stessi catturando un momento reale”.

Guardare Lost Country nel 2023, però, può essere un’esperienza inquietante. Con il nazionalismo di estrema destra in aumento in tutta Europa, il film sembra meno un documento del passato e più vicino a una notizia della settimana scorsa.

“La storia ha ovviamente echi di ciò che sta accadendo ora, con le minacce alla democrazia che stiamo vedendo ovunque, non solo con Trump negli Stati Uniti o con Bolsonaro in Brasile, ma con l’ascesa della destra in tutta Europa”, dice Perišić. “Negli anni Novanta, nell’ex Jugoslavia, abbiamo assistito al ritorno del fascismo storico. Ho lasciato Belgrado per la Francia e la cosa che mi piaceva della Francia di allora era che c’era una vera e propria linea rossa rispetto all’estrema destra. Nel discorso pubblico, tra i partiti politici tradizionali e nei media televisivi, l’estrema destra e il fascismo non erano accettabili. A poco a poco, la situazione è cambiata e queste idee stanno tornando a essere mainstream. Il mio film è quindi anche un avvertimento. Queste idee non sono morte e possono tornare – rapidamente e ferocemente”.

Traduzione di Pietro Cecioni