Fotinì Peluso: “Viaggio da sola, imparo lingue e non mi fermo mai. E sono alla continua ricerca di umanità”

È nel cast di Dieci minuti e torna su Netflix con Tutto chiede salvezza. L'attrice - classe 1999 - è determinata e "luminosa", come vuole il suo nome. Gira l'Europa (e i suoi set), mentre aspetta di essere diretta da Yorgos Lanthimos. Nel frattempo legge testi teatrali e non ha paura di farsi schiacciare dal suo mestiere. L'intervista di THR Roma

Il nome Fotinì vuol dire luminosa. Non in senso metaforico, bensì letterale. Se si entra in una stanza piena di luce, per descriverla in greco, si può dire che è “fotinì”. “Meno male che mia madre non ha avuto una bambina sempre imbronciata”. In effetti sarebbe stato un ossimoro, la piccola Fotinì Peluso – madre greca e padre italiano – che passa l’intera giornata col muso lungo sul divano. La curiosità l’ha salvata e le ha permesso di essere “luminosa”, come vuole il suo nome. L’ha spinta a trasferirsi a Parigi post immobilità da covid (mossa dall’amore per la città dopo l’Erasmus in economia) e di una Roma che cominciava a sembrarle sempre uguale, cosa che lei spera di non essere mai.

Da qui le produzioni internazionali, il successo enorme – e tenuto all’oscuro in Italia – del film La tresse, ma anche il proseguimento in patria con Dieci minuti di Maria Sole Tognazzi, dal 25 gennaio in sala. C’è la seconda stagione di Tutto chiede salvezza e l’obiettivo di girare il mondo il più possibile, imparare nuove lingue (le quattro che già conosce non bastano) e, perché no, guardare all’America. Ma a dirigerla, secondo lei, dovrà essere Yorgos Lanthimos: “Per forza, siamo compatrioti”.

Tra una foto e l’altra di un servizio che non le piace tanto fare (“ma alla fine è chiaro che mi diverto, sto facendo una cosa fighissima”), Fotinì racconta di set diversi sparsi per l’Europa eppure accomunati dalla stessa umanità, della difficoltà di trovare un momento per sé e di come i film possono insegnarci proprio questo: bontà e empatia. Servirebbe giusto avere il tempo di fermarsi e guardarli.

Ma davvero oggi, in questa vita frenetica, si riescono a trovare ogni giorno dieci minuti per fermarsi?

No, ma è proprio questa la sfida. Anche io cerco di ritagliarmi ogni giorno del tempo per me. Fare qualcosa che mi arricchisce, riprendere abitudini passate. Ad esempio, tornare a farsi il caffè la mattina può essere un esercizio rivelatore. 

In Dieci minuti c’è l’obiettivo di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo. Si è prefissata anche questo?

Non mi do degli obiettivi veri e propri, non è quel che mi metto in testa. Vivo l’imparare qualcosa di nuovo come una ricerca continua. Ma la mia fortuna è essere una persona curiosa, è ciò che mi stimola a cercare, a interrogarmi, a leggere sempre, ad apprendere.

Che libro sta leggendo al momento?

La più recondita memoria degli uomini di Mbougar Sarr Mohamed. Ma ora voglio passare a qualche testo teatrale.

C’è qualcosa di nuovo che ha imparato a fare ultimamente?

Viaggiare da sola. Voglio farlo più spesso. Sono sempre stata convinta di essere una persona restia alla solitudine, visto il mio carattere socievole, invece mi sono resa conto che questo mio stare da sola può concedermi di porre un occhio singolare su ciò che ho attorno. Sono esperienze che ti permettono di vedere il mondo in maniera diversa rispetto a quando sei con altre persone, che siano amici, fidanzanti o la famiglia. Ci sono periodi della mia vita, come questo, in cui riesco a ritagliarmi più tempo e voglio provare a farlo ogni anno. Intanto sono stata in India.

Come è andata?

Benissimo.

Cosa l’ha colpita di più?

Le persone. Sono sempre le persone, in realtà.

Prossima meta?

Pensavo al Vietnam.

E non ha paura di andare da sola in luoghi così lontani?

No, per nulla.

Eppure insegnano alle ragazze che è meglio non viaggiare da sole.

Sono tutti preconcetti. Ora, chiariamoci, sappiamo che ci sono posti più pericolosi di altri, per questioni a volte sociali, altre culturali o antropologiche. Ma abbiamo anche un nostro istinto e io mi ci affido tanto nella quotidianità, quanto nei viaggi. È ciò che mi permette di non infilarmi in situazioni in cui sento di non voler stare. Che, poi, ciò di cui ti insegnano ad avere paura è il diverso. Viaggiare rompe la barriera di ghiaccio e ti mostra che, invece, non ce n’è bisogno.

Ci sono stati set che le hanno fatto paura?

I set che mi fanno paura sono solo nelle storie che mi raccontano, per fortuna. Purtroppo so di giovani e di ragazze della mia età che hanno vissuto esperienze negative. Sono set in cui manca l’umanità. Questo mi spaventa davvero. Dovrebbe essere il folklore del nostro mestiere avere uno scambio sano con gli altri. Non potrei sopportare un set in cui non ci si parla, in cui non c’è empatia e in cui si vive a disagio.

Come è stato quello di Dieci minuti?

Pazzesco. Innanzitutto ero insieme a molte donne che stimo, in più raccontavamo come scoprire se stesse, il rinnovarsi, il ruolo della figura femminile nel mondo ed il ruolo che assume nella società. Un discorso sull’esistenza e sul suo entrare in crisi proprio in quanto donne. Poi c’è stata l’opportunità di lavorare con delle professioniste. Sapere di potermi ritrovare con Barbara Ronchi era un privilegio e Margherita Buy e Maria Sole Tognazzi hanno saputo farmi ridere tanto. È stato un set felice.

Anche nel film, tra l’altro, c’è spazio per le risate. Lo ritiene una sorta di dramedy?

Un po’ lo è. Ma è capace anche di toccare corde molto intime e profonde. La protagonista vive momenti di spaesamento che non vengono affrontati solo con ironia, perché quando il gioco si fa serio anche il film deve prendersi le sue responsabilità.

Fotinì Peluso e Barbara Ronchi in Dieci minuti. Foto di Luisa Carcavale

Fotinì Peluso e Barbara Ronchi in Dieci minuti. Foto di Luisa Carcavale

C’è un altro film che parla di donne, di cui è protagonista e che sta facendo il giro del mondo, tranne che in Italia. È La tresse, tratto dal best seller di Laetitia Colombani, che ha venduto 5 milioni di copie ed è stato adattato e diretto dalla scrittrice. Lo vedremo presto qui?

Sta arrivando, sta arrivando. Non so quando, ma dovrebbe essere annunciata a breve una data. Mi spiacerebbe non vederlo proiettato a casa mia, visto che è stato venduto in Spagna, Belgio, Svizzera, Canada, India, Germania e altri paesi. Nel frattempo in Francia l’accoglienza è stata gigantesca, come il giudizio favorevole: è il secondo film più amato del 2023 ed è una soddisfazione celebrare un simile traguardo. Certo, mi fa strano essere la protagonista di un’opera tanto chiacchierata in un altro paese, ma il successo che lo sta travolgendo mi basta. Comunque spero arrivi presto, anche perché i miei amici continuano a chiedermi come e dove vederlo, e non riesco più a trattenerli.

Le copie del film in Francia sono aumentate notevolmente rispetto al momento dell’uscita. Cos’è che colpisce il pubblico?

Il romanzo prima di tutto. È un best seller assoluto. Ha creato una rete di affezionati che volevano un adattamento per il cinema. Poi è una storia di donne. Abbiamo bisogno di parlare di donne. Sembra ripetitivo, lo so. Ma la strada per la parità di genere, anche nelle storie, è ancora tanta e film come La tresse riportano tematiche attuali e universali che uniscono varie parti del mondo, parlando di famiglia, di collettività, e di ridefinizione del proprio posto nella società, sia in quanto donne che esseri umani. Parla di amore, di empatia. Di questioni che non possono lasciare indifferenti le persone. È commovente e fa anche piangere, la maggior parte delle volte. È un film pieno di umanità.

Qual è la differenza più grande che ha notato tra le produzioni italiani e quelle francesi, o internazionali?

La cosa bella del cinema è che c’è una forza unica che ci accomuna. È come fossimo tutti una grande famiglia. Un modello che, per quanto riguarda l’Europa, si ripropone, tanto da farti sentire a casa su qualsiasi set. Le differenze possono essere negli orari, nei ritmi. Poi è vero, gli italiani tendono a essere più calorosi e chiassosi. Si creano però sempre rapporti limpidi e sani alla base, spinti da un’umanità di fondo.

Umanità. Un termine che continua a usare.

Sì, chiedo scusa, lo ripeto spesso.

Non c’è da scusarsi. Probabilmente è un concetto in cui crede, di cui ha bisogno.

È la cosa più importante. La bontà. L’umanità, per l’appunto. L’unico vero motivo per cui sono su questa terra. Qual è il senso sennò? Fare carriera? Mettere su famiglia? Io credo sia lo scambio con le persone, ciò che riusciamo a darci.

Italia, Francia, Svizzera. Hollywood dove sta?

Sta lì.

È da raggiungere?

Ci sono stati provini legati all’America. Alcuni erano progetti che non reputavo adatti, ad altri non sono stata presa, ma non mi precludo niente. È ovvio che l’industria di Hollywood è gigantesca, ma sarei ispirata allo stesso modo anche se dovessi lavorare in Spagna o in Germania. Sento di poter lavorare ovunque. Conoscere persone e lingue diverse. Mi piace molto cambiare.

Di lingue ne parla quattro. La prossima da imparare?

Lo spagnolo. Qualcosa già so dirla, ma spero di migliorare a breve.

Il 2024 è anche l’anno della seconda stagione di Tutto chiede salvezza. La prima era l’adattamento del libro omonimo di Daniele Mencanelli, adesso si naviga a vista. Era preoccupata all’idea di affrontare un ritorno senza il romanzo come salvagente?

Sì, non posso farne mistero. Sapendo soprattutto quanto Tutto chieda salvezza ha significato per tante persone. Cosa che non ho potuto constatare da subito e, quando me ne sono resa conto, è stato come un fiume che mi ha colpito in piena. Quando la prima stagione uscì su Netflix stavo girando Greek Salad, non ero fisicamente in Italia per capire il portato che la stava accompagnando. Mi è stato chiaro quando sono tornata e la gente mi fermava per strada per complimentarsi o per parlarmi delle sue esperienze. È stata una serie vista nelle scuole e negli istituti per sensibilizzare i ragazzi. Non avere più il libro a cui aggrapparmi mi ha spaventava, ma Daniele si è occupato comunque della sceneggiatura e a Francesco Bruni, che è mio amico, non posso che affidarmi.

Cosa dovremmo aspettarci dal ritorno della serie?

Si andrà più a fondo nelle dinamiche interpersonali dei personaggi. La prima era più concentrata sui temi della sanità e di come viene trattato il disagio mentale, mentre con la seconda si allarga lo spettro e si cerca di raccontare la moltitudine delle emozioni dei ragazzi e di come la ricerca di una propria salute impatta sui loro rapporti.

Il suo personaggio era una giovane attrice che a un certo punto crolla sotto il peso delle aspettative. Ha mai avuto paura di venire schiacciata dal suo mestiere?

No.

Mai?

Mai. Altrimenti ne avrei fatto un altro.

Fotinì Peluso e Barbara Ronchi in Dieci minuti. Foto di Luisa Carcavale

Fotinì Peluso e Barbara Ronchi in Dieci minuti. Foto di Luisa Carcavale

Abbiamo finito. Senta, la stavo guardando durante il servizio fotografico. Non le piace molto farli, vero?

Si vede tanto? In verità poi mi diverto anche mentre scattiamo. Mi rendo conto che sto facendo qualcosa di figo. È solo che non mi sento nel mio ambiente.

Una sua foto però è stata anche la copertina di un libro (Cosa pensano le ragazze di Concita De Gregorio, del 2016). E aveva solo diciassette anni.

Fu una richiesta inaspettata. Ricordo ancora la sorpresa di vedere il mio viso sugli scaffali. Sono così diversa adesso. È la mia faccia, ma insieme non lo è più. Ha uno sguardo, un’ingenuità che ormai non mi appartengono. Ma che rimangono impressi, proprio come i miei diciassette anni.

 

Digital Cover:

Fotinì Peluso fotografata da Dirk Vogel

Creative Director Tommaso Concina

Hair Daniele Falzone

Make up Martina d’Andrea

Look Chanel