Una navicella, che potrebbe appartenere tanto all’universo di Star Wars quanto a 2001: Odissea nello spazio, fluttua nel vuoto buio e freddo delle galassie. Si rivela, anzi è rivelata, pezzo dopo pezzo dallo sguardo di Bruno Dumont, come una grande cattedrale, dalle sembianze della Sainte-Chapelle di Parigi.
Questa è solo una delle tante, tantissime, scene di L’empire che spiazzano ma, assicura il regista, non c’è alcuna metafora, non c’è un senso da ricercare: “Non c’è un intento morale nel mio cinema, quello spetta alla società civile. Io, da regista, sono alla ricerca di qualcosa che ancora non so. Non idealizzo”.
Oltre la space opera, un cinema da ricostruire
L’empire, piuttosto, è la space opera, o meglio, ne è la sua distruzione. Ed è il gioco di ricostruzione e scoperta di un altro modo di fare cinema, come è il regista stesso a spiegare durante la sua permanenza al Bellaria Film Festival 2024, dove il suo ultimo lavoro è il film di apertura in anteprima italiana.
THR Roma lo incontra in seguito a una masterclass densissima di contenuti, di filosofia (mondo da cui, ci tiene a precisare, proviene) e di rielaborazioni del linguaggio cinematografico. Una lezione che il regista francese, Orso d’argento alla Berlinale 74 dello scorso febbraio, rivolge a una platea di giovani e giovanissimi, arrivati a Bellaria per incontrarlo, per dialogarci. E sì, anche per capirlo. Perché il cinema che vive e realizza Dumont è un’elaborazione tanto distante dal cinema d’autore come inteso nella tradizione europea (des auteurs, dei registi) tanto dai blockbuster industriali.
Così come lo descrive Dumont, “L’empire racconta perché siamo attraversati dalle forze del bene e del male. E perché a un certo punto siamo attraversati da una terza forza, l’amore, che non è né uno né l’altro” (e che, proprio per questo, è già stato accusato anche di sessismo). Il tono che sceglie, tuttavia, è quello del grottesco perché: “Per l’umanità, nel picco della scala tragica della tristezza, per quanto inquietante possa essere, subentra il suo esatto opposto, la risata”.
Immaginare l’inimmaginabile, tra Sainte-Chapelle e la reggia di Caserta
Il film quindi è una parodia sopra le righe di Guerre stellari e simili, ambientata nella campagna francese, in cui tuttavia “non c’è un messaggio politico. Il messaggio, al più, è la critica a modelli sempre uguali e ripetitivi, alla poca creatività all’interno del genere”.
Proprio per rompere un certo filone anche immaginativo sullo schermo, Dumont afferma: “Ho voluto creare delle alternative, delle nuove navicelle, e soprattutto creare un riferimento visivo rispetto al desiderio umano di conquistare la Terra, a partire dall’architettura. Da qui la Sainte-Chapelle e la reggia di Caserta”. I due luoghi, realmente usati per le riprese, “rappresentano la mediocrità dell’essere umano, ma anche la sua genialità, la possibilità di avere il sublime e il grottesco al tempo stesso. Che è la mia ricerca il questo film”.
“Parto da elementi concreti, come la scenografia o i costumi, perché per me il cinema è l’opposto di un’elaborazione culturale. L’atto di filmare non è cerebrale e infatti i film sono brutti quando se ne intravedono le intenzioni, quando le immagini diventano trasposizioni esatte delle parole di una sceneggiatura”, afferma il regista. “Sul set dei miei film la sceneggiatura esplode e non mi interessa più”.
Una ricerca “pasoliniana” della verità
Anche per questo preferisce affiancare ai nomi più noti – in questo caso Fabrice Luchini, Camille Cottin e Anamaria Vartolomei – i volti quasi pasoliniani di attori non professionisti: “Un certo cinema italiano ha molto contato nella mia formazione sia filosofica che cinematografica. Pasolini, ma anche Rossellini, sono riusciti a fare il cinema della poesia, a far crescere l’esperienza cinematografica come esperienza poetica, cosa che non esiste più”.
È solo dai non attori, prosegue Dumont, che lui da regista “riesce a ricevere la verità” che ricerca, “e sublimarla attraverso la macchina da presa. Perché il cinema è l’arte più umanista di tutte, ci obbliga a guardare meglio gli altri. Può filmare personaggi brutti, bizzarri, contorti e farcene innamorare. È una luce che attraversa il mondo e permette di vedere realmente l’umanità, soprattutto attraverso personaggi non archetipici”.
Il riferimento, pungente, è sempre a Hollywood e alla sua perfezione: “Hollywood è il mondo delle idee, dove tutto è diviso e tutto è chiaro nella sua divisione tra bene e male”, afferma ritornando anche alla sua formazione filosofica. “Nella realtà, che è il cinema naturalista, tutto è mescolato, confuso, e a me interessa osservare queste due metafisiche in contrasto”.
Per usare una metafora, questa volta dichiarata, Bruno Dumont afferma con ironia: “È un po’ come consumare un hamburger di McDonald’s o, invece, avere un approccio gastronomico. Per me il cinema è più gastronomia che non fast food. Non ha una logica di consumo, come nell’industria statunitense, dove la tendenza è quella di uscire dalla sala dimenticando il film. I grandi film esistono perché sono gli spettatori a completarli, attraverso il loro sguardo. A dare a un’opera la possibilità di espandersi e crescere. Come tutta l’arte”.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma