Auschwitz sta a pochi chilometri da Bratislava, oggi. Una donna con la divisa dei deportati e la stella gialla corre nella nostra direzione, sembra avere delle ferite sul volto ma sorride. Dei giovani, anche loro con gli occhi scavati, mangiano un panino, a due passi ci sono soldati nazisti che si stanno fumando una sigaretta, un altro – forse un ufficiale – parla al cellulare. Tutt’intorno le baracche, il cancello di ferro, il pallore dell’edificio che ospita le SS, il filo spinato, i forni crematori. Questa è la più grande ricostruzione del lager diventato l’emblema più doloroso, indicibile, dell’Olocausto mai realizzata su un set: più imponente – scusate il termine – accurata e precisa di quello di Schindler’s List. Praticamente identica, a parte le proporzioni, al campo di concentramento reale che si trova ad una sessantina di chilometri da Cracovia.
Almeno così dicono quelli della produzione de Il tatuatore di Auschwitz. Che è una serie in sei episodi profonda e dolorosa (la trovate dal 10 maggio su Sky e NOW), tratta dall’omonimo bestseller di Heather Morris, in arrivo in un momento in cui sia parla molto di memoria della Shoah, del bisogno di modi nuovi per raccontare l’abisso di atrocità che ha spezzato in due il Novecento, per non dire della nozione che l’umanità ha di se stessa dopo i campi di concentramento del Terzo Reich: e se Zona d’interesse – dibattutissimo Oscar di Jonathan Glazer – parla della distruzione di mondi all’esterno di Auschwitz (la vita quotidiana del comandante del campo, Rudolf Höss, e le sue aberrazioni), Il tatuatore ci porta per mano dentro l’inferno della più poderosa macchina di sterminio della seconda guerra mondiale (almeno un milione di ebrei hanno trovato la morte qui, oltre ai prigionieri politici, ai rom e sinti, agli omosessuali, ai testimoni di Geova più i cosiddetti “asociali”). E lo fa parlando d’amore.
Perché, sì, è la storia di Lali, un ebreo slovacco (interpretato da Jonah Hauer-King) – deportato nel 1942, e promosso a fare il “tatuatore” del campo, ossia a marchiare il numero di matricola dei prigionieri a vita sui loro avambracci – che qui incontra una ragazza, Gita Furman (Hanna Prochniak), e se ne innamora all’istante. Un amore impossibile eppur in qualche modo possibile, in mezzo alla violenza, ai soprusi, alle urla delle SS, alle prevaricazioni, ai morti, alle infamie.
È, in un certo senso, anche una serie sui fantasmi, Il tatuatore di Auschwitz: un anziano Lali (interpretato da un immenso e dolente Harvey Keitel) racconterà la sua storia, sessant’anni dopo gli orrori, a Heather Morris (Melanie Lynskey, che ricordiamo tanti anni fa nelle Creature del cielo di Peter Jackson, oggi in Yellowjackets e in The Last of Us, tra i tanti): e mentre parla, al suo fianco appaiono – come appunto degli spettri – i suoi compagni morti, l’ufficiale nazista che lo perseguitava (un notevolissimo Jonas Nay), le ombre di un passato che non allenta la presa.
Si capisce che per Tali Shalom-Ezer, che ha diretto tutti gli episodi della serie, questo è il progetto della vita. Regista e sceneggiatrice israeliana (Princess, 2014, e My Days of Mercy, 2017) – in questo caso anche coproduttrice – quasi sembra avere la voce rotta dall’emozione mentre parla con THR Roma.
“Appena ho avuto le sceneggiature ho sentito una connessione fortissima con questa storia. Quel che mi attraeva è l’angolatura così peculiare, unica. Ossia il raccontare Auschwitz – il più oscuro di tutti i luoghi – nella prospettiva di una storia d’amore, il vero Lali Sokolov che condivide la memoria di esperienze e sentimenti che non credeva di poter mai provare, e lo fa sessant’anni dopo aprendosi a Heather Morris. Lali ha lasciato Auschwitz, ma non l’ha mai lasciata davvero. Auschwitz non lo ha mai abbandonato. Così lui lotta con questi spettri, con le emozioni che provocano, con il suo senso di colpa per essere sopravvissuto, con tutte queste memorie buie che forse nemmeno comprende fino in fondo”.
Ovviamente, portare la Shoah – e Auschwitz – sullo schermo è forse una delle sfide più difficili per chi racconta per immagini: “Non si può filmare il campo come fosse un museo. Ed in più c’è la difficoltà di raccontare una storia intima su una scala così immensa. In ogni scena avevamo almeno duecento comparse, che in certi momenti riuscivamo a far sembrare migliaia. Tutto questo cercando la maggior accuratezza possibile nella ricostruzione dei luoghi”.
Si è trattato di ricreare fedelmente l’aspetto, le divise, i volti: nelle stanze della produzione a Bratislava avevano attaccato alle parenti decine e decine di fotografie di deportati, riproduzioni dei loro disegni, mappe, copie di regolamenti vigenti nei campi. La storia per immagini dell’irraccontabile.
Così dice Claire Mundell, produttrice esecutiva del Tatuatore di Auschwitz: “Abbiamo potuto contare sulla consulenza storica di Naomi Gryn, a sua volte figlia di un sopravvissuto dei campi. Insieme a lei abbiamo occupato molto tempo facendo ricerche sull’aspetto del lager e sulla sua struttura. Pur considerando gli evidenti limiti di una produzione televisiva, il nostro obiettivo era di realizzare il maggior grado possibile autenticità. E quel che era impossibile realizzare materialmente lo abbiamo ricreato con gli effetti speciali”. Ecco infatti il green screen, la prospettiva mutata degli spazi, la computer generated imagery. Indistinguibile, però, dal reale.
Anche per Jonah Hauer-King, fresco della sua esperienza a fianco di Halle Baily nella Sirenetta, l’immersione dentro Auschwitz appare esser stata un’esperienza totalizzante: “Sto ancora cercando di capire cosa significhino il mio ebraismo e le mie origini familiari per raccontare questa storia e in che modo l’abbiano influenzata”, racconta l’attore a THR Roma. “Naturalmente per me c’è una particolare risonanza, e sicuramente la mia origine ebraica mi ha fatto sentire più vicino al mio passato e a mio nonno che lasciò la Polonia. Ma al di là di un ovvio senso di responsabilità, la domanda che continuo a pormi è se il mio ebraismo abbia cambiato il modo in cui ho interpretato Lali. Onestamente non lo so. Forse l’ha fatto, ma ho ancora bisogno di tempo per rifletterci e dare un senso a quel che ho vissuto sul set del Tatuatore“.
Impossibile, guardando la serie, non avere in mente i precedenti della settima arte, da Schindler’s List di Steven Spielberg al Pianista di Roman Polanski, ma oggi lo sguardo si allarga anche a Zona d’interesse: “Un lavoro incredibile, quello di Glazer, che mi ha scosso profondamente”, ammette Tali Shalom-Ezer. “È stata un’esperienza importante, ci ripenso spesso. È cruciale che oggi vi siano tanti modi così diversi di raccontare la storia dell’Olocausto. Ma anche se abbiamo rivisto tutto quello che poteva esserci d’ispirazione, alla fine è stato necessario focalizzarsi su quello che serviva alla narrazione: quasi devi dimenticare tutto il resto, per onorare la storia che hai di fronte”.
In questo caso, una storia di sentimenti: da cercare tra le baracche, lungo le marce della morte, sotto le torri di guardia con i cecchini delle SS, tra i colpi di fucile delle esecuzioni sommarie, in mezzo alle malattie, vicino alla ciminiera dei forni, a ridosso delle camere a gas. Un amore che ha avuto la meglio su Auschwitz. Una luce che ha resistito nell’oscurità.
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