Gestire i non morti non è facile. Né nella vita, né in film come Handling the Undead

Il debutto al lungometraggio di finzione di Thea Hvistendah - in concorso all'ottava edizione del Riviera International Film Festival - è un'opera affascinante, ma incompiuta. Che cerca di superare la forma, ma rimane semplice involucro

Gestire i non morti non è una cosa facile. Non deve esserlo nella realtà, ma nemmeno nella finzione è tanto più semplice. È inoltre il titolo del film di Thea Hvistendah, Handling the Undead, al suo debutto nel lungometraggio dopo una serie di corti e la regia del film concerto del 2017 Adjø Montebello. Gestire i non morti non è cosa facile e non lo è soprattutto quando si è vivi, quando quei morti si sono già lasciati andare, si sono salutati, che sia da poco o che sia da anni.

Gestire i morti è il più grande cruccio che la letteratura, dai greci ai fantasy, si è impuntata di voler trattare, forse pensando di poter trovare una soluzione, un modo per riportare davvero la gente in vita, cercando di capire in caso cosa poter fare per rendere la convivenza il più serena possibile.

Ma, sebbene possa sembrarlo – anche per una serie di effettistica sui non-morti – l’opera di Hvistendah non è uno zombie movie. C’è un’epidemia, ma non viene vissuta come tale. E non diventa mai nemmeno un disaster o un horror movie. È un dramma. È il dramma di queste persone, di queste famiglie che hanno perso qualcuno di loro caro e che lo vedono tornare. Forse soffrendo maggiormente per le condizioni in cui se lo trovano davanti.

Handling the Undead, quando confezione e storia coincidono (ma non conquistano)

Non belli, non sani, non privi dei segni che la morte con la sua falce ha lasciato sulla pelle, in Handling the Undead intercorre un rimpallo continuo: dalla vita alla fine, per poi ripartire. Non facendolo però mai veramente. Vegetali, cadaverici, i corpi dei morti “resuscitati” sono solo corpi, svuotati della vita.

La morte è tale non quando non si ha più un contenitore di pelle e ossa, ma quando quest’ultimo non viene riempito con niente, svuotato di personalità, di sentimenti, di anima. Ed è così anche per la pellicola. Quasi una sua stessa analisi del film interna. La pellicola ci prova con tutte le proprie forze a non essere solo forma, ma lo rimane. Ci tiene ai personaggi, più di quanto finiranno per fare gli spettatori. Li inserisce in un teatro funebre, dove il loro ritorno dall’aldilà non ha slancio, non ha scintilla. È coerente con l’aurea mortifera che imposta, che detta il (non) andamento del tempo, fermo e pesante.

Se i defunti hanno riacquistato la possibilità di tornare nella realtà, quest’ultima nel film si piega ai suoi lugubri protagonisti e all’angoscia che generano all’interno dei proprio nucleo familiare. Ma se concettualmente il risultato è conforme, sul computo generale pesa un complessivo senso di immobilità, che affascina e allontana, costringe alla riflessione, ma anche al disinteresse. Un costante incontrarsi/scontrarsi di contrasti, che rendono di certo l’opera accattivante, ma mai fino in fondo.