Esistono luoghi che tracciano e definiscono le identità, come la Calabria di Il mio posto è qui. Aspra a primo impatto, spigolosa, povera. Nei suoi muri a secco, di pietra viva, nei nei suoi colori desaturati, nella sua terra brulla, gialla e bruciata, contro cieli chiarissimi e nella sua durezza (anche della lingua), nasconde e mimetizza i tormenti umani. Li rende parte del paesaggio, con un mare – lontano, ma sempre presente – di tumulti interiori.
È appunto questa la Calabria che fa da sfondo, e in realtà anche da personaggio, alla storia raccontata da Cristiano Bortone e Daniela Porto, co-registidel film tratto dall’omonimo libro di quest’ultima.
Un film a quattro mani (e quattro occhi)
“Strana coppia, Yin e Yang”, come si definiscono, nel lavoro e nella vita, marito e moglie hanno scelto di portare sullo schermo un testo che già in “sé aveva delle chiare immagini cinematografiche”, ma che rielaborare attraverso il corpo dei protagonisti, Ludovica Martino e Marco Leonardi, ha permesso in un certo senso di scrivere ancora una volta.
È la storia di due emarginati in un paesino dell’entroterra calabrese nel 1946. Marta (Ludovica Martino) è una ragazza madre, rimasta incinta di un ragazzo partito per il fronte e mai più tornato. Lorenzo (Marco Leonardi) è un “l’organizzatore di matrimoni”, l’unico uomo gay conosciuto in paese, aiutato e sostenuto dal parroco come aiutante dei corsi prematrimoniali.
Si incontrano quando Marta accetta le nozze di convenienza con Gino, un vedovo molto più anziano di lei, con due figlie a cui badare. Sa che “il suo posto”, soprattutto dopo la fine della guerra, è quello di occuparsi di un marito, restaurando l’onore che il suo gesto d’amore, anni prima, ha tolto alla sua famiglia. E pur con riluttanza, lo accetta.
Quando Lorenzo la incontra in canonica, però, qualcosa scatta tra loro. L’ostilità si trasforma in curiosità e la curiosità in amicizia. Si riconoscono simili, emarginati in un mondo che prova a piegarli alle sue condizioni, ma contro cui trovano la forza di ribellarsi.
Una questione di libertà
“I miei genitori sono calabresi “, afferma Daniela Porto, che ha scelto di girare questo film in dialetto, quello della zona della locride (Reggio Calabria), per l’esattezza, dove sono avvenute anche le riprese. “Il racconto nasce da un aneddoto che mi raccontava mia madre, avvenuto però molto dopo, negli anni Sessanta. C’era un uomo, omosessuale, che nel suo paese aiutava le ragazze a organizzare i matrimoni. E nel parlarmi di lui mia madre aveva sempre nella voce un lieve tono di invidia, come se dicesse: ‘Anche lui era più libero di me, che sono una donna’. Non voleva essere discriminatoria, ma pensava alla sua condizione femminile, sempre sottoposta al giudizio e allo sguardo altrui. Da questo pretesto è nata l’idea di Il mio posto è qui. Ho immaginato cosa sarebbe accaduto, in un altro contesto, se si fossero incontrati due emarginati come Marta e Lorenzo”.
Il 1946, continua Porto, è un anno che ha scelto per la portata simbolica, per il suo ruolo nella storia italiana. Era appunto finita da poco la seconda guerra mondiale, la società era ricolma di speranze, le donne avevano appena ottenuto il diritto di voto. “Eppure poi molte di quelle promesse sono state disattese”.
Non ha del tutto senso, però, paragonarlo a un altro importante film degli ultimi mesi, ambientato nello stesso anno, C’è ancora domani di Paola Cortellesi. È curioso come entrambi i film esprimano e riflettano il bisogno della società di parlare – ancora e meglio – del problema della violenza sistemica sui corpi e sulla vita delle donne. Ma lo fanno in modo molto diverso, affermano i registi.
Scrivere il proprio futuro, una lettera alla volta
“Sono grato a Paola Cortellesi, soprattutto perché ha portato moltissima gente al cinema”, prosegue Cristiano Bortone, “però il punto del nostro film è un altro. Si tratta di un percorso di liberazione, che in C’è ancora domani non si realizza”.
Paradossalmente Il mio posto è qui si lega più a un altro lavoro di una grande regista, Jane Campion, e cioè Lezioni di piano, che Bortone indica come il suo riferimento principale nella composizione del lungometraggio. “Un film meraviglioso, con un’altra estetica, certo, e con un altro stile. È tutt’altra cosa, però ha quella dinamica particolare d’amore che si sviluppa attraverso la musica e i tasti del pianoforte. Ecco qui, invece, il riscatto di Marta si realizza attraverso i tasti della macchina da scrivere”. Quell’oggetto – e la cura con cui lo sfiora e lo usa – è la “chiave della sua emancipazione”. Imparando il mestiere della dattilografa in una sede locale del Partito comunista, infatti, Marta riesce a immaginare per sé un nuovo futuro.
Certo, se non avesse conosciuto Lorenzo, se non si fosse aperta a lui e non avesse abbattuto anche i pregiudizi che – da ventenne nata e cresciuta nel periodo di repressione fascista erano forti in lei – non sarebbe arrivata alla stessa consapevolezza di sé, come persona e come donna.
Eppure, come sottolinea anche Daniela Porto, è ancora più importante come Marta scelga di proseguire per la sua strada anche da sola, senza farsi scoraggiare dall’assenza di un uomo accanto, dalle paure o dalle circostanze o dal giudizio altrui.
Marta e Lorenzo, Ludovica e Marco
Marta e Lorenzo, in fondo, sono due solitudini, due monadi, che si incontrano in un preciso momento delle loro vite e si trasformano a vicenda. Lei restituisce a lui il coraggio di rivendicare se stesso e il suo posto, proprio lì tra chi in passato lo ha rifiutato. Lui dà a lei gli strumenti per conoscere meglio se stessa e “cercare il suo mare”, il suo orizzonte di possibilità.
È una scelta fondamentale, perciò, anche quella di ridurre sullo schermo la presenza di Lorenzo, quasi solo in funzione della storia di Marta. Come accade in ogni adattamento, qualcosa rispetto al libro deve essere sacrificato, e in questo caso tocca alla comunità queer segreta a cui appartiene l’uomo, la famiglia per scelta che viene mostrata in un paio di scene ma che rimane a distanza, come un altro mondo possibile: “Abbiamo girato molte di quelle scene”, afferma Bortone, “ma poi abbiamo scelto di eliminarle dal montaggio per focalizzarci solo sulla storia di Marta. Nella creazione del personaggio di Lorenzo, tuttavia, per noi è stato importante non scivolare nello stereotipo, non farne una macchietta. Il riferimento è sempre stato Marcello Mastroianni in Una giornata particolare, anche se nel libro di Daniela (Porto, ndr) non né descritto l’aspetto né l’età”.
La scelta dei protagonisti, infatti, a differenza del certosino e fedele lavoro di location scouting e di ricostruzione delle scenografie e dei costumi, è stata anche una questione di affinità elettive. “Di Marco Leonardi mi sono innamorato professionalmente già guardandolo in Come l’acqua per il cioccolato (1992). Da ragazzo sognavo un giorno di lavorare con lui e ho colto l’occasione con questo film (in cui l’attore recita anche nel suo dialetto calabrese di origine, ndr)”. Con quel suo sguardo nero, nerissimo, inconfondibile, riesce a far trasparire anche tutto ciò che del suo Lorenzo non viene raccontato. Tutta la sofferenza e la riappropriazione della sua identità, negli anni.
Per la parte di Marta, invece, è stata presa una decisione in apparenza rischiosa, ma rivelatasi vincente per più di un motivo.
L’attrice romana Ludovica Martino ha studiato, e si nota tanto. Non è soltanto entrata nei suoni della lingua – aspetto già non facile, per un dialetto poco usato al cinema, come quello della bassa Calabria – ma ha colto la complessità e la stratificazione di un personaggio femminile lontano nel tempo ma anche in evoluzione, capace di cambiare idea su di sé e sugli altri. Le ha dato inoltre un volto “forte della sua unicità”, affermano i registi, mantenendo anche i suoi colori e i suoi capelli rossi, tratto distintivo rispetto anche agli altri personaggi, che rende la sua Marta un ulteriore simbolo di ribellione, di distacco da uno sfondo unitario.
Un cinema con un messaggio, ma senza eroine
Ludovica Martino, guidata dallo sguardo dei registi, crea una protagonista che non ha bisogno di essere eroina, né senza macchia per riuscire a parlare con un pubblico più ampio possibile. “Il mio posto è qui è un film indipendente”, afferma Bortone, “ma non significa che debba essere sperimentale, anzi. Vuole essere narrativo, ispirazionale, per portare le sue tematiche al grande pubblico. “Per noi è importante” – come è accaduto anche durante le presentazioni ai festival – “che gli spettatori si riconoscano nel messaggio, che se ne sentano toccati ma soprattutto rappresentati. Non vogliamo fare un cinema isolato nella sua torre d’avorio”.
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