Full Monty – la serie, la recensione: otto episodi imperfetti (ma calorosi e genuini)

Ambientati 25 anni dopo gli eventi del film degli anni Novanta, gli otto episodi tornano a raccontare le gesta di Gaz (Robert Carlyle) e degli altri ragazzi di Sheffield

C’è davvero qualcuno che ha finito di vedere Full Monty – Squattrinati Organizzati, chiedendosi cosa sarebbe successo a quei ragazzi da lì a tre decenni dopo?

Il film del 1997 era un’opera completa, con pochi snodi della trama rimasti in sospeso e senza alcuna urgenza di espandersi in un universo cinematografico. Il nuovo sequel di Hulu (Disney+ in Italia, dal 5 luglio, ndt), intitolato Full Monty – la serie, non offre una chiara giustificazione per la sua stessa esistenza. Non c’è un motivo preciso che ci riporti a Sheffield, né una necessità impellente per rimanerci. E l’omaggio esplicito al famoso balletto del film viene messo in scena (in modo piuttosto divertente) come se il cast avesse accettato di esibirsi di nuovo solo con una pistola puntata alla testa.

Nonostante tutto la serie funziona meglio di quanto si pensi. Lo show (creato da Simon Beaufoy, che ha scritto anche il film) scommette sul fatto che, nonostante la faccenda dello spogliarello sia ciò che la maggior parte della gente ricorda ancora oggi di Full Monty, quel che veramente  ha funzionato nel film sia stato lo spirito: il rapporto tra i personaggi, l’umorismo leggero, lo sguardo affettuoso ma non edulcorato sulla vita di provincia. La serie, pur con tutti i suoi difetti, conserva con successo gran parte del fascino del predecessore.

Come si legge in un breve prologo, gli otto episodi riprendono le fila della storia 26 anni, sette primi ministri e otto politiche di sussidi al Nord dopo l’uscita del film. Per certi versi, molte cose sono cambiate. Lomper (Steve Huison) apprende nel corso della prima puntata che i giovani di oggi trovano offensivo il nome che ha dato al bar che possiede insieme al marito (Paul Clayton), non cogliendo il doppio senso delle parole “Big Baps” (“grandi tette” in slang, ndt). I vecchietti che si riuniscono a gruppetti per lamentarsi delle “cose sbagliate in questo paese”, come Gerald (Tom Wilkinson) e Darren (Miles Jupp, un nuovo membro del gruppo), non fanno che commiserarsi. E Horse (Paul Barber), il più vecchio fra gli anziani, fatica a capire cosa sia il “maledetto hashtag Me Too”.

Il resto non è cambiato. La città è forse più fatiscente di prima, e il teatro malandato in cui i ragazzi mettevano in scena il loro spettacolo ispirato a Chippendales è ormai in rovina da tempo. La scuola locale, dove Dave (Mark Addy) lavora come custode e sua moglie (Lesley Sharp) è la direttrice, è afflitta da danni strutturali e da tagli al bilancio sempre più severi. L’ospedale locale, dove Gaz (Robert Carlyle) lavora come portantino, è talmente a corto di personale che gli infermieri hanno iniziato a somministrare farmaci pesanti ai pazienti psichiatrici per renderli più docili. La vita non è semplice nemmeno per la generazione più giovane: la figlia adolescente di Gaz, Destiny (Talitha Wing), riesce a malapena ad andare a scuola e a casa della mamma ha una situazione familiare a dir poco precaria.

Sono molti i problemi sul piatto, e – soprattutto nella prima metà della stagione – gli sforzi di Full Monty per affrontarli tutti insieme possono disorientare. Gli episodi tendono a concentrarsi su un personaggio alla volta: il ragazzo problematico (Aiden Cook) che cattura l’attenzione di Dave in una puntata viene raramente menzionato in seguito (A volte è meglio così; sono stato felicissimo di dimenticarmi della complicata sottotrama di Lomper, incentrata sui piccioni). Nei passaggi peggiori la serie riduce i personaggi minori a pedine vagamente didascaliche, come la richiedente asilo (Halima Ilter) che arriva dal nulla per insegnare a Darren ad aprire mente e cuore prima di scomparire sullo sfondo.

Ma Full Monty ha un cuore troppo grande per essere stroncata. La serie nutre un fortissimo affetto per i suoi personaggi e per il loro rapporto di amicizia, consolidato nel tempo. È sempre bello vedere il gruppo riunirsi ancora una volta per organizzare un funerale poco ortodosso o per sventare una rapina. Anche il vecchio cast non sbaglia un colpo. Carlyle interpreta il personaggio dell’intrallazzone dal cuore d’oro Gaz con la stessa disinvoltura con cui si metterebbe addosso una giacca di pelle malconcia, mentre Addy e Sharp esplorano con grazia la profondità di un matrimonio segnato da una perdita. Bravissimo anche Barber, che interpreta il disorientamento di Horse nei confronti della modernità con ironia e commozione.

Full Monty è molto realistico nel raccontare le ingiustizie che affliggono la comunità. Descrive un mondo in cui tragedie terribili si abbattono su persone gentili, giovani e anziani si trovano in vicoli ciechi e l’assistenza sociale ha buchi enormi, che inghiottono intere vite. Come il suo predecessore cinematografico, la serie non è interessata ad analizzare le radici di questi problemi, o a fingere che alla gente basti un po’di coraggio per “aggiustare” il sistema. Quando Horse deve affrontare la perdita della pensione di invalidità, un’assistente sociale comprensiva non fa altro che offrirgli il pranzo dopo avergli dato la brutta notizia.

Ma il film ha fiducia nelle persone e nei legami che le uniscono. È evidente nei gesti piccoli, come la torta al cioccolato (con una montagna di panna montata) che Gaz porta a Dave dopo un incidente, e in quelli grandi, come lo sboccato “Coro della Vendetta” messo in piedi da un’insegnante (Sophie Stanton) per offrire a ragazzi come Destiny uno sbocco creativo dopo il taglio del programma di musica della scuola. Full Monty sa bene che la solidarietà fra le persone non basta, ma sa anche che è l’unica affidabile fonte di speranza e calore in un mondo spietato. Come i suoi protagonisti, la serie “ce la fa” semplicemente mettendo insieme, come e dove può, momenti di gioia, divertimento e compassione.

Traduzione Pietro Cecioni