Star Trek Discovery, la serie di fantascienza più ottimista del mondo. In barba alle apocalissi di Dune & co (ed ecco cosa c’entra Kennedy)

Giunte alla loro quinta stagione, le avventure del capitano Michael Burnham sono la "pecora bianca" in mezzo al pessimismo perturbante, sabbioso e mistico di Arrakis ma anche alla minaccia permanente del lato oscuro di Star Wars. Eh sì, questo idealismo progressista, l'incrollabile fede nella forza della civiltà, iniziato ai tempi di Kirk e Spock negli anni sessanta, è parente stretto della nuova frontiera di JFK, delle marce dei diritti e delle missioni sulla Luna

Spazio. Quelle che vi raccontiamo sono le avventure di una solida federazione galattica millenaria, di una flotta stellare fondata su valori di fratellanza, democrazia e convivenza, di un’astronave che ha scopi scientifici e se si trova invischiata in tutta una serie di battaglie è solo perché vi viene trascinata da avversari cattivissimi, di una capitana di origine afroamericana che di nome fa Michael ma che è educata da un nobilissimo ambasciatore vulcaniano, di una serie di vortici spazio-temporali clamorosi ai quali i valori di cui sopra non soccomberanno mai, di un computer centrale – ossia un’intelligenza artificiale – chiamato Zora che ha assunto una sua personalità e che nonostante ciò rimane buono e che, contrariamente a Hal 9000 di 2001 Odissea nello Spazio, non ha nessuna intenzione di annientare gli essere umani. Sì, è di Star Trek: Discovery che stiamo parlando.

Una scena di Star Trek: Discovery, stagione numero cinque

Una scena di Star Trek: Discovery, stagione numero cinque

Giunta alla sua quinta stagione, forse l’ultima, attualmente disponibile su Paramount +, è la serie di fantascienza più ottimista al mondo. Ed è proprio questa caratteristica a farne un oggetto quasi mitico: in questo scorcio di secolo in tutti i mondi possibili siamo talmente assuefatti alle apocalissi di ogni genere e specie, a pianeti desertici, a imperi ultra-malvagi che si presentano con diecimila incrociatori spaziali a volta e di norma distruggono interi pianeti, a lotte di potere tendenzialmente mistiche, a devastazione cosmiche dovute di volta in volta da ecatombi nucleari e/o ambientali, che la via lattea di Star Trek appare quasi angelica, forse candida, ma sicuramente si dimostra la pecora bianca in mezzo alle molte galassie delle fantascienze che dominano il nostro immaginario collettivo.

Il punto è che lo spirito, la suggestione dominante, dell’immaginario fantascientifico dei nostri giorni – e dunque dell’immaginario tout court – sembra essere, appunto, l’apocalisse o se non altro il disastro totalizzante generale, l’ombra prevalente dell’armageddon. Se poi nel mucchio ci buttiamo i disaster movies, gli scenari di New York sommersa dal ghiaccio o immersa nel deserto, meteoriti abnormi che devastano l’80 per cento della superficie terrestre, pandemie universali o lune che precipitano sul nostro povero pianeta e mostri alla Godzilla che polverizzano intere metropoli come metafore ambulanti del fungo nucleare, il conto è presto fatto.

Daisy Ridley

Daisy Ridley nei panni di Rey

Sì, certo, finanche nelle saghe di Star Wars il Bene – ossia la resistenza, la Forza e i cavalieri Jedi – ogni tanto ha la meglio, ma è vero che il Male rimane sempre in agguato e la minaccia è sempre totalizzante, da Darth Vader alla Morte Nera, dall’imperatore Palpatine al lato oscuro. Non solo: i mondi raccontati nelle Guerre Stellari lucasiane sono generalmente sudici, corrotti, densi di un’umanità dolente, imperfetta, spesso criminale. E comunque per sua stessa natura il Bene – il potere mistico della Forza – è imparentato con il Male, in una dinamica di attrazione reciproca che rappresenta un rischio costante che non si disinnesca mai, che getta un’imperitura ombra su tutti i mondi possibili.

Oscuro, pessimista e perturbante è anche il retro-futuro di Dune di Denis Villeneuve: a parte il fatto che bisognerebbe un giorno indagare il motivo per cui gran parte della science fiction sia così attratta dalla sabbia e dal potere dei deserti (da Luke Skywalker a Paul Atreides, passando da Mad Max, si potrebbe dire) – probabilmente è la desolazione e la sete come allegoria cosmica di ogni possibile futuro umano – i mondi di Arrakis e annessi sono pervasi da una profonda inquietudine esistenziale, da un’infelicità di fondo, dalla sensazione che anche le pulsioni mistiche siano schiave delle lotte di potere.

Non solo: Dune esterna fascinazioni antichissime, medievali, tra ducati, casate, ambienti da palazzi di regnanti, lotte all’arma bianca e crociate teoricamente lontanissime dalla lucentezza dei laser e delle usuali tecnologie futuribili. È un qualcosa che condivide con Star Wars, ovviamente – dove fanno bella figura di sé computer sgangherati, i droidi sfasciati, la cabina di pilotaggio del Millennium Falcon da prendere a calci e botte quando s’inceppa il salto nell’iperspazio – ma in generale l’idea è che l’equazione tra futuro e passato abbia una sua potenza archetipica, sia un elemento simbolico radicato nei substrati della coscienza condivisa.

Ian McDiarmid nei panni di Palpatine in Star Wars: L'ascesa di Skywalker

Ian McDiarmid nei panni di Palpatine in Star Wars: L’ascesa di Skywalker

Ecco, il mondo di Star Trek è tutt’altra cosa: alla base della sua narrazione – nata originariamente dall’ingegno di Gene Roddenberry, che voleva miscelare Flash Gordon con l’epica dei western – c’è l’incrollabile convinzione che la civiltà intesa nel senso progressista del termine avrà la meglio qualsivoglia avversità immaginabile. Detto in altri termini: le avventure dell’astronave Enterprise (anni sessanta come i Beatles e i Rolling Stones, direbbe Morandi), del capitano Kirk, di Spock e compagnia prima, poi di Picard, ora di Michael Burnham, del primo ufficiale Saru e di Cleveland “Book” Booker, sono tutte figlie di JFK.

Sì, avete capito bene: di John Fitzgerald Kennedy, ossia dell’America liberal della new frontier, della convinzione che un’America progressista e aperta avrebbe migliorato il mondo intero. Una spinta mossa dall’ottimismo della Costituzione a stelle e strisce, ma anche dall’onda lunga della distensione e del disarmo in un mondo diviso tra due blocchi contrapposti, dall’America della lotta contro la povertà e la discriminazione razziale, delle marce per i diritti civili, finanche della conquista della Luna. “Siamo sul bordo di una Nuova Frontiera”, ebbe a dire il presidente all’alba degli speranzosi anni sessanta, “la frontiera delle speranze incompiute e dei sogni. Al di là di questa frontiera ci sono le zone esplorate della scienza e dello spazio”.

Rebecca Ferguson e Lady Jessica in Dune - Parte due

Rebecca Ferguson e Lady Jessica in Dune – Parte due

Sono parole che riecheggiano potentemente in molti dei discorsi epici che si fanno nelle puntate cruciali di Star Trek, è un’eredità che la seria ha esposto con pervicace convinzione sin dalle stagioni classiche dei roaring sixties (dove il bacio tra il capitano wasp Kirk e l’afroamericana Uhura finì per essere percepito come rivoluzionario, tanto che quando l’attrice Nichel Nicholls pensò di abbandonare il ruolo fu Martin Luther King in persona a farle cambiare idea).

Vale ancora oggi per le contemporanee puntate di Discovery e di Strange New Worlds (altra serie spin-off dello show originario): anzi, in questi anni Venti del nuovo millennio Star Trek pullula se possibile ancora di più di riferimenti ai temi liberal dei giorni nostri, non a caso mettendo in primissima linea l’afroamericana Sonequa Martin-Green (strepitosa attrice, by the way) nei panni del capitano Michael Burnham, e pure sviscerando in chiave futuribile la fluidità gender e la normalità delle relazioni tra persone dello stesso sesso, ma anche e soprattutto mettendo sempre al primo posto il bene della collettività, qui in chiave galattica, che si parli di ambiente violato o di minoranze depredate o di dialogo intercosmico.

(Last but not least, impossibile non leggere nell’epico discorso finale di Burnham al termine della stagione numero uno delle avventure della Discovery un’eco anti-trumpiana: che all’ex tycoon ora di nuovo in corsa per la Casa Bianca siano fischiate le orecchie è poco ma sicuro).

Il bacio fra William Shatner e Nichelle Nichols in Star Trek

Il bacio fra William Shatner e Nichelle Nichols in Star Trek

C’è la federazione dei pianeti (evidente espansione degli Stati Uniti d’America, come modello culturale e politico), c’è la flotta stellare – che più che un’armata pare un’associazione benefica fondata sui valori – e, innanzitutto, c’è la forza della civiltà che s’impone sempre, c’è l’umanesimo dilagante racchiuso nel principio della “seconda chance”: Burnham, nella stagione numero uno, viene persino arrestata ed è praticamente un’appestata, ma riuscirà a farsi strada – di stagione in stagione – fino al grado di capitano dell’astronave, la Discovery appunto, amata in quanto comunità ricolma di differenze e varietà umane, non certo in quanto vascello bellico.

Civiltà, idealismo e umanesimo hanno la meglio finanche sui più clamorosi intrecci spazio-temporali che si possano immaginare (e questa è forse la principale differenza rispetto alle serie e ai vari film targati Star Trek dei decenni passati): fluttuazioni continue nelle epoche e nella storia, persino di secoli, diversi universi paralleli dove dei capitani buoni sono ovviamente il proprio speculare opposto malvagio, “angeli rossi” che ci pilotano dal futuro e interagiscono col presente.

Squassi di ogni genere e specie, sui quali però ha sempre sopravvento un indubitabile ottimismo, of course: in barba ai cattivissimi Sith, al delirio sanguinario di Kylo Ren, ai pelatoni grassi e avidi che dominano il pianeta Arrakis, alla religiosità ambigua degli Atreides e al para-islamismo libertario dei Fremen, nell’universo di Star Trek s’impone la polis ateniese, l’agorà della democrazia. La fede incrollabile nella civiltà delle stelle.

Zendaya è Chani in Dune - Parte due

Zendaya è Chani in Dune – Parte due

“Salpiamo su questo nuovo mare perché c’è nuova conoscenza da acquisire e nuovi diritti da conquistare, che devono essere conquistati e utilizzati per il progresso di tutte le persone. Perché la scienza spaziale, come la scienza nucleare e tutta la tecnologia, non ha una coscienza propria. Se diventerà una forza positiva o negativa dipende dall’uomo, e solo se gli Stati Uniti occuperanno una posizione di preminenza possiamo aiutare a decidere se questo nuovo oceano sarà un mare di pace o un nuovo terrificante teatro di guerra”. Sono le parole che Kennedy pronunciò il 12 settembre 1962 a Houston (“abbiamo un problema, Houston”) con l’obiettivo di persuadere il popolo americano a sostenere il programma Apollo per far sbarcare l’uomo sulla Luna.

Sono parole che, mutatis mutandis, avrebbe potuto rivolgere al suo equipaggio il capitano Kirk, pochi anni dopo, ma anche il capitano Michael Burnham, dell’astronave Discovery, impegnata nella sua missione “all’esplorazione di strani nuovi mondi, alla scoperta di nuove forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima”. In altre parole: andrà tutto bene, ragazzi.