Buon compleanno William Shakespeare, grande architetto delle galassie umane. E grazie: senza di te non avremmo mai avuto Star Wars

Il Bardo compie oggi 460 anni, ed è ancora sconvolgente la sua presenza nell'immaginario collettivo e la sua predominanza nella settima arte. A cominciare da Guerre Stellari: Darth Vader come Macbeth, Kylo Ren come Jago, Rosencrantz e Guildenstern come C-3PO e R2-D2. Praticamente non si può capire la saga di Lucas senza il genio assoluto di Stratford. Un filo rosso che tocca, ovviamente, anche Orson Welles, Akira Kurosawa e West Side Story

Ovvio: si chiama William Shakespeare la grande forza che si nasconde dietro Star Wars. “Luke, if you only knew the power of the dark side” romba con l’erre moscia l’immenso Darth Vader in una delle scene più leggendarie della storia, quella della rivelazione “I am your father”, sono io tuo padre, che il più tormentato dei cattivi del cinema di tutte le epoche lancia al cavaliere Jedi Luke Skywalker dopo avergli staccato una mano con la spada laser. Ebbene, questa scena di L’impero colpisce ancora, episodio cinque nella complicata cosmologia di Guerre Stellari, è Shakespeare allo stato puro: un’imponente figura malvagia ma tragica, straziata dal conflitto interiore (come Macbeth), che ha grossi problemi con i figli (come Re Lear) e che per di più parla un inglese assolutamente “britannico”(al contrario dello yankee Luke).

Ebbene, oggi il sommo bardo compie la bellezza di 460 anni essendo nato, come si sa, a Stratford-upon-Avon il 23 aprile 1564, ed è tuttora sconvolgente la sua presenza nell’immaginario collettivo globale, la sua predominanza su qualsiasi altro autore della letteratura mondiale, compreso Omero. Perlomeno per quello che riguarda il racconto per immagini in movimento, diciamo: il suo teatro ha modellato la settima arte, e di conseguenza la serialità a seguire, dall’architettura psicologica degli intrecci agli infiniti richiami mitologici passando dalla cosmologia dei personaggi, una specie di galleria onnicomprensiva delle esistenze possibili che va dai re ai buffoni, dagli schiavi ai principi, dalle cortigiane alle regine, dai popolani ai duchi, tutti a rappresentare la complessità e la varietà dell’umano vivere. Sogni, immaginazioni, paure, rabbia, potere, gelosia, filosofia (in cielo e in terra): nella galassia Shakespeare c’è tutto, più di tutto.

Adam Driver nei panni di Kylo Ren in Star Wars: Gli ultimi Jedi (2017)

Adam Driver nei panni di Kylo Ren in Star Wars: Gli ultimi Jedi (2017)

Per forza c’è anche Star Wars nel mondo del Bardo di Avon. Anzi, forse non si capisce pienamente la saga forgiata in principio da George Lucas se non nella chiave shakespeariana: un movimentato reticolato di parentele intorno alle quali si attorcigliano e si dipanano lotte di potere, aneliti di libertà e istinti di dominio. Palpatine come Riccardo III (anche se nella variante ultraterrena), certe visioni della “ultima Jedi” Rey che ricordano quelle di Macbeth (le tre streghe) e di sicuro hanno la stessa funzione ambiguamente rivelatoria, e pure Kylo Ren, figlio dannato, ossessionato dal Male da compiere, anche lui come Macbeth, e traditore come Jago nell’Otello.

Il linguaggio, la lingua, non è da meno: “The greatest teacher failure is” (il più grande maestro il fallimento è, dice il saggio maestro Yoda in The Last Jedi – ed è un’affermazione degna di “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quanto tu ne possa sognare nella tua filosofia” (vedi alla voce Amleto) – lo stesso film nel quale il leader supremo Snoke sibila “darkness rises, and light to meet it” (sorge l’oscurità e la luce le va incontro): con facilità s’immagina questa frase pronunciata da Riccardo III, per dire. Si può continuare a lungo con il catalogo delle analogie: i droidi C-3PO e R2-D2 come Rosencrantz e Guildenstern nell’Amleto, per Lando Calrissian potete scegliere uno a caso tra i tantissimi comprimari dei maggiori testi shakespeariani, il cacciatore di taglie Boba Fett è un po’ come quei personaggi che entrano ed escono dalla scena tipici della messinscena elisabettiana, un po’ come lo “exit ghost”, il fantasma che entra ed esce dalla scena di Amleto.

I droidi C-3PO e R2-D2 in Star Wars: una nuova speranza (1977)

I droidi C-3PO e R2-D2 in Star Wars: una nuova speranza (1977)

Non è finita qui. C’è chi ci ha fatto una fortuna editoriale nel leggere Star Wars sotto la lente del Bardo: nella fattispecie Ian Doescher, che a cominciare dal 2013 ha sfornato vari volumi nei quali riscrive i vari capitoli della saga di Lucas come fossero drammi shakespeariani (il suo volume William Shakespeare’s Star Wars: Verily, A New Hope, comprensivo di indicazioni di scena e pentametro giambico), arrivò a conquistare la classifica dei libri del New York Times. Idem i volumi successivi, come quello in cui Anakin Skywalker uccide i piccoli futuri Jedi: nella versione di Doescher, la scena riecheggia l’assassinio di Desdemona da parte di Otello. “Have you said all your orisons this night”, chiede ai bambini il futuro Darth Vader, proprio come il Moro di Venezia aveva domandato alla moglie “Have you pray’d to-night, Desdemona?”.

Orson Welles in una scena di Macbeth (1948), da lui diretto e interpretato

Orson Welles in una scena di Macbeth (1948), da lui diretto e interpretato

Da George Lucas a JJ Abrams passando per Irvin Kershner, Richard Marquand (l’unico britannico del gruppo) e Rian Johnson, tutti i registi dell’universo Star Wars hanno avuto ben presenti le lezioni del Bardo di Avon, ossia l’idea della costruzione corale del dramma epico, e un po’ forse dipende anche dal fatto che nel mondo anglosassone si viene tirati su a pane e Shakespeare sin dalla culla (il che è anche una spiegazione della bravura media degli attori inglesi così straordinariamente alta, ma questa è un’altra storia).

Rimane il fatto che l’idea di immergere la fantascienza nel mare magnum dell’epos shakespeariano non era affatto scontata, eppure anche qui si tratta di seguire un filo rosso: è noto che Lucas si sia ispirato per la saga di Star Wars ai film di Akira Kurosawa, il maestro assoluto dei Sette Samurai, ma allo stesso tempo è altrettanto noto che Kurosawa è debitore di Shakespeare. In diversi film lo è in modo dissimulato, ma lo è in modo esplicito, per esempio, ne Il trono di sangue (1957), che è una trasposizione del Macbeth così come molti anni dopo Ran, il suo capolavoro del 1985 è, né più né meno, un Re Lear in salsa samurai.

Una scena di Ran (1985), di Akira Kurosawa, trasposizione del Re Lear di Shakespeare

Una scena di Ran (1985), di Akira Kurosawa, trasposizione del Re Lear di Shakespeare

Né è un caso che il Bardo di tutti gli autori del mondo sia il più rappresentato al cinema. Qui citiamo a caso, il Macbeth, Falstaff e l’Otello di Orson Welles (“Mi amava per i pericoli che avevo superato, e io l’amavo perché li compiangeva”, sibila il gigante di Quarto Potere), ma ovviamente anche l’Amleto di Laurence Olivier e quello di Franco Zeffirelli con Mel Gibson, così come il postmodernissimo Romeo + Juliet di Baz Luhrman dotato di un giovanissimo Leonardo DiCaprio oppure La tempesta di Julie Taymor dove Prospero è una donna, ossia Helen Mirren, ma anche le divertenti deviazioni come Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard e la rom-com (oggi si direbbe così) che è Shakespeare in Love, oppure la canterina West Side Story declinata sulla falsariga di Romeo e Giulietta, senza parlare, più recentemente, del lividissimo Macbeth di Joel Coen con Denzel Washington oppure Il Re, dove Enrico V è nientemeno che Timothée Chalamet.

Una galassia di personaggi, di vite, di battaglie, di morti, di immagini come quelle del corteo funebre delle prime scene dell’Othello wellesiano, tra le cui figure nere non sfigurerebbe affatto l’imponente e nerissimo Darth Vader, l’oscuro padre due volte traditore e dalla coscienza straziata.

Joseph Fiennes e Gwyneth Paltrow in una scena di Shakespeare in Love di John Madden (1998)

Joseph Fiennes e Gwyneth Paltrow in una scena di Shakespeare in Love di John Madden (1998)