Donne che “vogliono il pane e vogliono le rose”: protagoniste di un mondo che cambia, anche sul grande schermo. Ma non chiamatele eroine

Dalla Emmeline Pankhurst di Meryl Streep, in Suffragette, alle operaie tessili di Gillo Pontecorvo in Giovanna: il primo maggio, le rivendicazioni e le conquiste di personaggi femminili comuni, al centro delle loro rivoluzioni

“Trentaquattresimo giorno, resistevamo ancora. E nessuna avrebbe abbandonato la lotta ormai. Nessuna, sino alla fine”: conclude così la voce fuori campo di Giovanna nell’omonimo episodio di La rosa dei venti firmato da Gillo Pontecorvo. Il film collettivo, prodotto dalla Defa tedesca nel 1957, documentava la condizione delle lavoratrici in Italia, Brasile, Urss, Cina e Francia attraverso le storie romanzate di vere operaie.

Sono donne comuni e al tempo stesso eroine, quelle raccontate da Pontecorvo. Chi appena sposata, chi incinta di sette mesi, chi anziana, chi madre di tante, troppe, bocche da sfamare: ognuna ha una storia alle spalle e un motivo per cui aggrapparsi al posto in fabbrica. Nessuna esita, tuttavia, nel momento in cui l’occupazione diventa l’unico modo per evitare il licenziamento di venti dipendenti. Contro il parere e lo scetticismo degli uomini, la maggior parte resiste a oltranza, fino a convincere anche loro.

Questo è solo uno degli esempi, forse tra i più politicizzati e militanti, del ruolo attivo delle donne nella lotta per i diritti sociali e del lavoro. Pontecorvo, regista vicino al partito comunista nel secondo dopoguerra, non nasconde e anzi enfatizza il suo supporto alla classe operaia del suo tempo. Non serve, tuttavia, rovistare nello storico Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, alla ricerca di Giovanna, per trovare altre testimonianze altrettanto forti, sia d’autore che un po’ più pop.

Innamorarsi del mondo che si trasforma

Se si parla di rapporto tra cinema, diritti e lavoro, il nome di Ken Loach è necessariamente il primo che viene in mente oggi. Nonostante abbia spesso raccontato il proletariato britannico e irlandese da un punto di vista maschile, tanto il suo ultimo film, The Old Oak, quanto un titolo meno recente come Bread and Roses mettono in campo uno sguardo femminile necessario e rivoluzionario. Uno sguardo che scuote lo status quo e ogni equilibrio (maschile) pre-esistente, anche sul lavoro.

In Bread and Roses, titolo mutuato da un celebre sciopero del 1912, in particolare Loach teorizza la rivoluzione sociale come un concetto inseparabile da un’idea di “bellezza”. Ossia, spiega il bisogno di innamorarsi del cambiamento, di aspirare a trovarvi meraviglia e armonia e non solo la distruzione del vecchio ordine. Idea che, sembra dire il regista, acquista più forza se portata avanti da una protagonista femminile, che vive su di sé anche il peso e le storture di un sistema sessista e violento, oltre che classista. Da qui la scelta di far prevalere la storia di Maya (Pilar Padilla), su quella del sindacalista Sam (Adrien Brody).

Ballare al ritmo del mondo

Una simile coppia di comprimari, anche se in un contesto del tutto diverso, è quella portata in scena da Paolo Virzì in Tutta la vita davanti, dove il sindacalista è Valerio Mastandrea e la protagonista è la giovane Marta, interpretata da Isabella Ragonese.

Il film, ispirato al romanzo-diario di Michela Murgia, Il mondo deve sapere, è al tempo stesso uno spaccato, reale e grottesco, del precariato italiano e la denuncia a un sistema incapace di valorizzare il lavoro intellettuale, soprattutto se femminile.

Isabella Ragonese in una scena di Tutta la vita davanti

Isabella Ragonese in una scena di Tutta la vita davanti. Courtesy of Medusa Film

Marta, laureata con lode e bacio accademico in filosofia, infatti, nell’attesa di un dottorato di ricerca entra in un mondo molto distante da sé, quello di un call center commerciale, e si scopre incapace di “ballare” a tempo con esso, di seguirne il flusso, le imposizioni e le umiliazioni.

Più che una lotta, la sua, è un enorme sforzo per restare a galla e non farsi soffocare, cercando di restare fedele a se stessa e a ciò in cui crede. Contemporaneamente vive e guarda il mondo con gli occhi di donne molto diverse da lei, per estrazione sociale, istruzione ed età, imparando che gli sforzi di una diventano quelli di tutte e viceversa.

Marion Cotillard e l’immagine della donna (da sola) in lotta

Sola contro tutte e tutti, invece, sembra essere la Sandra di Due giorni, una notte, celebre film dei fratelli Dardenne con Marion Cotillard. Sandra perde il suo lavoro dopo mesi di assenza, impiegati per riprendersi da un’acuta depressione. Anziché proteggerla, l’economia del tempo e del capitale la sostituisce in fretta, perché, per i vertici della fabbrica, gli operai rimasti possono semplicemente dividersi il suo turno.

Scegliendo di superare la propria reticenza e il proprio imbarazzo, Sandra affronta i colleghi uno a uno, per due giorni e una notte, appunto, cercando di convincerli a scegliere tra lei e un premio in denaro. A spingerla non è solo il bisogno di continuare a lavorare ma la dignità che, porta dopo porta, le gonfia il petto e le raddrizza la schiena, riportandola anche riacquisire una nuova percezione di sé. Al di là dell’esito del suo tentativo, infatti, la vittoria più grande la scopre proprio nel coraggio di lottare, per sé, per gli altri e per il senso del suo stesso lavoro.

“Meglio essere ribelle che schiava”

Fra le migliaia di battute interpretate negli anni da Meryl Streep, uno dei momenti che forse meriterebbe di essere ricordato di più è il monologo nei panni di Emmeline Pankhurst in Suffragette. “Non vogliamo infrangere la legge, vogliamo fare la legge” e se per farlo è necessario disobbedire alle regole, afferma, “meglio essere una ribelle che una schiava”.

Il film di Sarah Gavron porta la lotta sindacale e femminista anche nell’industria cinematografica più patinata. Scegli di “usare” grandi celebrità e volti noti, da Helena Bonham a Carey Mulligan, oltre alla stessa Streep, per attirare un pubblico più ampio e anche meno politicizzato, per raccontare una storica lotta femminile occidentale, che incastra il diritto di voto con i diritti delle lavoratrici.

Donne che, in quanto tali, guadagnano meno dei colleghi uomini. Operaie che si ammalano di più, perché più esposte ai fumi della fabbrica e meno libere di muoversi da sole all’aperto. Madri, mogli e compagne, costrette a scegliere un ruolo nella società e conformarsi solo a quello. È tutto questo che le Suffragette rifuggono. E, con la stessa ammirevole e commovente forza di Carey Mulligan nel film, a denti stretti e con le lacrime agli occhi, affermano: “Vinceremo noi”.