Possiamo essere singoli anche in mezzo agli altri, ce lo dice Maschile plurale

Arrivato in sordina nelle sale dal 15 febbraio , il sequel del film del 2021 ritrova il protagonista di Giancarlo Commare e ne riaccende il desiderio di un amore difficile da dimenticare, ma inedito e rivisto sotto tutt'altro aspetto

Non c’è niente di peggio delle battute sui sequel. A superarle, forse, solo quelle sui libri e i film – avete capito quali? Quelle sugli adattamenti, col libro che era meglio del film. Esatto, proprio loro. Maschile plurale ha una battuta simile. Una battuta sul fatto che l’originale è sempre meglio del sequel. La pronuncia Michela Giraud mentre si trova insieme ad Antonio, il personaggio di Giancarlo Commare, deciso a riconquistare il Luca di Gianmarco Saurino, di ritorno dopo l’hot priest de L’estate più calda.

Le battute – le solite – non finiscono qui: ti piace la minestra riscaldata? Chiede l’amica al protagonista, che ricordiamo aver divorziato tre anni prima all’inizio di Maschile singolare (2021), e decisamente cambiato rispetto al giovane naïf che avevamo conosciuto.

Lo stesso che aveva avuto un solo uomo ed era stato trascinato nelle “turboserate” di Luca e il loro altro “amico”, Denis, salutato nel primo film in maniera drammatica, segnando una svolta nella visione delle relazioni del protagonista, non più concentrato sull’impostarsi solamente come “coppia”, ma pronto a iniziare a pensare a se stesso singolarmente.

Eppure, nonostante le frecciatine e la sottolineatura di una frase che ovviamente si riferisce a un contesto metacinematografico più grande, dove il film sente quasi il bisogno di giustificare la sua esistenza (tra l’altro avvenuta tutta in sordina, giusto un trailer qualche giorno prima della sua uscita al cinema e non su Prime Video come era stato per il primo, dove comunque arriverà) Maschile plurale è un film che non ha nulla da invidiare al precedente.

Maschile plurale, diventare un “noi”

Un film, Maschile singolare, che già aveva saputo ritagliarsi a suo modo un proprio spazio nella dimensione al confine tra commedia romantica e opera queer, in una congiunzione che faceva vedere allo spettatore come non dovesse esserci necessariamente una divisione tra le due cose – purtroppo sì, spesso per alcuni prodotti e fruitori è ancora difficile.

Giancarlo Commare e Gianmarco Saurino in Maschile plurale

Giancarlo Commare e Gianmarco Saurino in Maschile plurale

Magari quello queer poteva rientrare in un sottogenere nella più ampia categoria delle rom-com, ma il punto alla base dell’opera di Alessandro Guida (che torna alla regia) insieme a Matteo Pilati (stavolta soltanto produttore) era proprio di slegare Maschile singolare da una possibile etichetta che avrebbe relegato la pellicola a un solo tipo di commento sia critico che sociale. Per intenderci, Maschile singolare voleva essere la storia d’amore di una persona che doveva imparare a innamorarsi di se stessa e che, alla fine, c’è riuscita. Genere o orientamento sessuale poco importa.

Con Maschile plurale, invece, tutto cambia. Per prima cosa, iniziando dall’evidenza, il personaggio di Antonio deve ricominciare a pensare “per due”, dove “due” sta non solo nel condividere un obiettivo insieme, ma anche nel dover rispettare le scelte dell’altro, soprattutto se il ritorno di Luca nella sua esistenza coincide con l’imminente matrimonio dell’ex amante con un altro uomo.

“Due” è il numero simbolico per la pluralità che nel film si espande a macchia d’olio, coinvolgendo il singolo – l’Antonio “singolare” – nel Rifugio, casa d’accoglienza per giovani LGBTQIA+ in cui l’amico ha cominciato a lavorare e che lo metterà in relazione con ragazzi e ragazze che la possibilità di formare un gruppo, un insieme, una famiglia, fino a quel momento non ce l’hanno avuta.

Dolci ricordi, nuovi insegnamenti

Nel suo desiderio egoistico di riconquistare la fiamma passata, il percorso di Maschile plurale allarga il proprio raggio d’azione e spalleggia le soluzioni romantiche alla Il matrimonio del mio migliore amico con una riflessione veicolata dal personaggio di Riccardo, il sempre più bravo Francesco Gheghi.

Una luce che accede su realtà come, per citarne solo alcuni, Refuge a Roma su un progetto di Gay Center, Casa+ sempre nella capitale, per espandersi a punti di riferimento per la comunità queer come il circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. E che nel personaggio del giovane che chiede soldi per un briciolo d’amore e un vago senso di indipendenza, rivela dei disagi che si tenta di affrontare in forma di commedia, e che nella suddetta pluralità che invoca vuole mettere proprio tutti.

C’è così la chimica di due persone che hanno un’intimità alle spalle, c’è l’angheria da sberleffo tra i nuovi partner (da Giulio Corso a Andrea Fuorto, impressionante volto da cinema di Patagonia), compresa tutta una parabola di annichilamento post successo raggiunto da Antonio, che non si diverte più dopo essere diventato un pasticcere famoso e vuole tornare al vecchio forno per (ri)sentire qualcosa.

La coscienza così che si accende. I ricordi restano ricordi (che possono trasformarsi in dolci) e si comprende che non bisogna stare da “singoli” nel proprio eremo, bensì si può esserlo anche in mezzo agli altri. Ad amici che non vedevamo da tempo, ad altri che non abbiamo mai lasciato, a dare una mano a chi, fino a quel momento, una mano non l’ha mai ricevuta. A capirci e impararci anche grazie a chi abbiamo davanti. Sapendo come stare con noi stessi, anche insieme a tanti.