L’ascesa di Giancarlo Commare: “Io, figlio di Pirandello alle prese con George Orwell”

A teatro con l'adattamento di 1984 e sul set con Michele Placido nei panni del figlio del drammaturgo siciliano, poi un film alla Festa del Cinema con Nuovo Olimpo di Ferzan Ozpetek e ad Alice nella Città con Eravamo bambini di Marco Martani: per l'attore è un momento d'oro. "Il successo? All'inizio non è stato facile". L'intervista con THR Roma

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C’è stato un momento, causa Covid, in cui tutta Italia era chiusa in casa. Tra una teglia di pizza da infornare e una canzone intonata dal balcone, a tenere compagnia durante quelle giornate interminabile ci hanno pensato la tv e le piattaforme streaming. E c’è una serie che in quei mesi ha ottenuto un record di visualizzazioni trasformando un gruppo di giovani attori nella next big thing del piccolo e grande schermo. La serie in questione era Skam Italia e tra i suoi interpreti c’era Giancarlo Commare.

Classe 1991, Commare in solo quattro anni ha saputo cavalcare quella popolarità improvvisa – “All’inizio non è stato facile. Da un momento all’altro esci di casa e ti rendi conto che non hai più privacy” – e dirigere la sua carriera dove voleva lui senza replicare all’infinito un ruolo fortuito. Lo dimostra anche il successo ottenuto a teatro con Tutti parlano di Jamie, tra canto, ballo e tacchi vertiginosi. Alla Festa del Cinema di Roma lo vedremo in due film, Nuovo Olimpo di Ferzan Ozpetek e Eravamo bambini di Marco Martani, che sarà presentato ad Alice nella città.

Ma sono tanti i progetti che lo vedranno protagonista, da Eterno visionario di Michele Placido in cui interpreta il figlio di Luigi Pirandello a teatro dove, al fianco di Violente Placido e Ninni Bruschetta, porterà in scena un adattamento di 1984 di George Orwell passando per Avetrana – Qui non è Hollywood, serie dedicata ad uno dei casi di cronaca nera italiana, l’omicidio di Sarah Scazzi, più bui della nostra storia recente.

Giancarlo Commare

Giancarlo Commare

Due film alla Festa del Cinema. Cominciamo con Ozpetek. Che esperienza è stata?

Stupenda. Incredibile. È stata una sorpresa inaspettata che mi ha portato a conoscere Ferzan, il suo set di e il suo modo di lavorare. Mi piace tantissimo come racconta le storie. Abbiamo lavorato su un personaggio che non è presente in tutto il film, ma che ha un ruolo abbastanza importante. E anche se non ha grossi sviluppi nel corso del racconto, il lavoro è stato molto intenso.
Ferzan è stato molto contento sia della preparazione che dello sviluppo che c’è stato sul set. Non ho ancora visto il film ma l’ho incontrato qualche giorno fa e si è complimentato tanto. Sono molto curioso di scoprire cosa ho combinato.

Ozpetek è uno di quei registi che affermano di innamorarsi sempre dei suoi attori.

Spero che sia successo anche con me (ride, ndr). Non so se questa cosa la posso dire e non so neanche se lui ricordi questa cosa: però a fine set Ferzan mi ha lasciato dicendomi che avrebbe piacere in futuro di lavorare di nuovo con me, magari come uno dei protagonisti di un suo film. Chi lo sa, speriamo!

In Eravamo Bambini, invece, lavora con molti attori suoi coetanei. Il cinema si sta accorgendo che c’è una fetta di pubblico da poter portare in sala?

Sì, assolutamente. Viviamo in un’epoca dove è molto più comodo rimanere a casa e selezionare quello che più ci piace stando sul divano piuttosto che scomodarsi per andare a teatro o al cinema. Però non dobbiamo sempre solo affidare questa colpa al pubblico, ma più a quello che raccontiamo e al modo in cui lo raccontiamo.

La crisi della sala non è così nera?

Non è proprio così vero che la gente non vada più al cinema o a teatro. Se c’è qualcosa di interessante ci va eccome. L’operazione che si sta facendo mi ha fatto notare un cambiamento che sta portando anche altre fasce di età, che magari solitamente non vediamo così spesso, a frequentare i teatri. Ci vanno, si divertono e apprezzano. Ho avuto delle esperienze recenti con Tutti parlano di Jamie dove moltissime persone mi hanno confessato che era la prima volta che andavano a teatro. Gente di venti e trent’anni. Insomma, anche se tardi ci è arrivata. Forse perché il contenuto era diverso. Quindi dobbiamo chiederci anche noi da questo lato che cosa è giusto raccontare.

Giancarlo Commare in Tutti parlano di Jamie

Giancarlo Commare in Tutti parlano di Jamie. Courtesy Teatro Brancaccio

Ritiene sia anche una colpa di produzioni e distribuzioni che, per replicare un successo, tendono a riproporre storie spesso troppo simili?

Sì, credo sia proprio questo il problema. A volte ci si basa su quello che alla gente è piaciuto confezionandolo magari in maniera diversa. Ci si basa su quello che è vincente, piuttosto che scommettere e rischiare su qualcosa che è completamente nuova e non si sa che riscontro avrà. Io sono più per questa strada. Più possibilità abbiamo, più abbiamo modo di capire quanto vasto sia il pubblico. Da piccolo incontrai Giuseppe Tornatore, con il quale mi piacerebbe lavorare un giorno. Gli chiesi quale fosse il segreto per fare qualcosa che registicamente potesse funzionare.

Mi rispose: “Il segreto è fare qualcosa che piaccia a te. Perché se non piace a te, non piace a loro. Abbiamo fallito tutti e due. Se a loro non piace ma a te sì, almeno tu avrai vinto”. Sono di questa politica qui. È chiaro che bisogna andare verso il pubblico. Però non dobbiamo abituarci a fare solo quello che pensiamo possa piacergli.

Nella sua carriera si è ritrovato a prendere parte a progetti che non la convincevano fino in fondo?

Onestamente sì. All’inizio soprattutto. Fortunatamente ogni esperienza, seppur negativa, mi ha lasciato qualcosa di positivo dopo. È chiaro che ho degli obiettivi nella mia vita. Però, nonostante all’inizio ci siano stati dei progetti che non volevo fare, che pensavo non mi avrebbero portato a nulla e non fossero in linea con quello che sono io, poi in realtà mi sono anche divertito. Sono convinto che si può trarre sempre qualcosa di buono. Tutto sta nel saperlo vedere.

Il 4 novembre debutta in un adattamento di 1984 di George Orwell. Crede che stiamo vivendo in un Grande Fratello che ci siamo costruiti da soli?

Certo. Il telefono che ci portiamo tutti i giorni dietro è il nostro Grande Fratello. Non è ovviamente come descritto nel romanzo, però ci siamo dentro. Anche se in maniera diversa, un po’ in questa dinamica mi ci sento. È anche la ragione per cui faccio questo spettacolo. È una di quelle cose che voglio fare assolutamente, mi sento in linea con questo tipo di progetto e di racconto. Orwell l’ho sempre amato. Anche quando me lo facevano odiare a scuola (ride, ndr).

In quel testo c’è una grande verità umana a cui tutti dovremmo pensare. Però spesso ce lo dimentichiamo e rimaniamo dietro a cose che sono molto futili e potremmo lasciarci scivolare molto più facilmente. È come se facessimo finta di non vedere delle cose. Forse per comodità. Viviamo in un Grande Fratello e lo viviamo da ogni punto di vista. Siamo perennemente sotto controllo. Non solo degli altri ma anche di noi stessi.

Ludovica Francesconi e Giancarlo Commare in Sempre più bello

Ludovica Francesconi e Giancarlo Commare in Sempre più bello

Ha citato la scuola. È stata importante per il suo percorso? Ha incontrato qualcuno che l’ha ispirata?

Ho capito che volevo fare questo nella vita quando ero abbastanza piccolo. Avrò avuto dieci anni più o meno. È stato durante una recita natalizia al catechismo. In più nella mia scuola c’era una tradizione: che ogni anno si organizzava uno spettacolo e una festa stile liceo americano. Ho iniziato a prendervi parte fin dal primo anno. Lavorare con i miei compagni, organizzare, cercare gli sponsor ha fatto risvegliare quel sogno che avevo da piccolo e mi ha fatto capire che quella doveva essere la mia strada. Mi sono detto: “Ho deciso: dopo la scuola faccio l’Accademia”.

C’è qualcuno che, invece, quel sogno ha provato a sgonfiarlo?

Tutti (ride, ndr)! Poi in paese quando dicevo che volevo fare l’attore tutti mi rispondevano con la classica frase: “Sì, però di lavoro vero?”.

Questo la feriva?

Mentre studiavo all’Accademia, durante i primi anni a Roma, mi mantenevo facendo il cameriere a Piazza Navona. Parlando con un cliente mi chiese cosa volessi fare nella vita. Gli raccontai il mio sogno e lui me lo smontò in una maniera così brutale che mi ferì perché ci credevo. È finita con me che lo inseguivo dicendogli a brutto muso: “Ricordati questa faccia. Io ce la farò e ne parleremo tra qualche anno”. Non so se si ricorda, ma se ha seguito qualche mio film e gli è piaciuto sono contento (ride, ndr).

Tra i tanti progetti che la vedono protagonista c’è Eterno Visionario, il nuovo film di Michele Placido, dedicato a una parentesi precisa della vita di Pirandello. Chi interpreta nel film?

Sono Stefano Pirandello, il figlio maggiore dello scrittore. Sono felicissimo che mi sia capitata questa cosa nella vita, perché Pirandello è sempre stato uno dei miei autori preferiti, nonché d’ispirazione al mio primo progetto registico teatrale. Un lavoro molto sperimentale che nasceva da Uno, nessuno e centomila, la mia Bibbia per tanti anni.

Tornando a Stefano. Che personaggio è?

Particolare. È sempre stato alla destra del padre, ma vive un po’ nell’ombra. C’è una bellissima lettera che scrive alla madre. È risaputo che la moglie di Pirandello impazzisce, perché non riesce, da donna di quel tempo proveniente da una realtà molto piccola, ad abituarsi a Roma. Lei voleva occuparsi della famiglia e stare con il marito che invece si occupava di tutt’altro, dall’arte al teatro. A lei questa cosa l’ha fatta scoppiare. È sempre stata una persona che si è dovuta reprimere tantissimo. In questo Stefano, scrivendo quella lettera alla madre, lo ammette.

Si riconoscono nel doversi nascondere alla realtà che vivono gli altri, nel dover fare qualche passo indietro per poter permettere a qualcun altro di vivere la propria vita. Stefano fa proprio questo. Rinuncia alla sua scrittura e ai suoi progetti per stare vicino, supportare e non intralciare il padre. Non lo fa con odio, lo ama tantissimo e lo stima artisticamente. È un personaggio abbastanza contorto. Non riesce quasi mai ad esprimere quello che prova dentro. Finora è forse il ruolo più difficile che abbia interpretato.

Giancarlo Commare con una copia del nostro magazine, Il Lido dei sogni

Giancarlo Commare con una copia del nostro magazine, Il Lido dei sogni. Foto di Mauro Marani

In Avetrana – Qui non è Hollywood c’è stata una responsabilità collettiva da parte del cast e della produzione nel raccontare questa storia?

Quando arrivavamo sul set, nella zona trucco, cercavamo di giocare e scherzare tantissimo perché una volta che iniziavano le riprese il clima cambiava totalmente. Non perché non ci divertivamo a fare il nostro lavoro ma perché quello che trattavamo era veramente pesante. E non lo avvertivamo solo sul set ma anche intorno a noi. Siamo andati a girare vicino ai luoghi reali. E questa cosa si è avvertita. È stato come riscoperchiare il trauma.

Se si vuole raccontare questa storia secondo me è necessario perché, oltre a raccontare la vicenda, qui si punta soprattutto il dito contro i mass media che hanno invaso le vite di queste persone totalmente e per parecchio tempo facendo delle cose anche abbastanza brutte pur di avere una notizia. Bisogna sempre capire quali sono i limiti. Soprattutto quando si parla di vite umane. Il punto focale della serie è spostato più su questo aspetto.

E vestire i panni Ivano Russo?

È stato tosto. La difficoltà c’è stata anche perché è un personaggio che esiste e di cui tante cose sono sparite. Non ho avuto modo di vedere molto, anche perché quando è successo ero abbastanza piccolo. Non è che mi ricordassi veramente di questa persona, di come fosse. Ho trovato circa due minuti di video in cui si vede per capire come si muoveva.

La richiesta del regista è stata di inserire questa persona all’interno del personaggio ma di anche allontanarmene perché sono altro anche fisicamente. Abbiamo cercato di lavorare anche verso un’altra direzione. Il lavoro è stato molto interessante da affrontare e abbastanza difficile perché è un personaggio dentro una dinamica ma non ci vuole stare.

Poco fa ha parlato di obiettivi. Quali sono?

Mi piacerebbe continuare un percorso di crescita che vada verso una direzione di racconti di un certo tipo. Scelgo di fare le cose se mi smuovono dentro. Per me significa che quella è la scelta giusta. Poi, come qualsiasi altro attore, mi piacerebbe affrontare la regia. Uno dei miei più grandi sogni sarebbe quello di creare uno spazio che sia anche idealmente una città d’arte. Un luogo dove liberamente si possa creare e condividere materiale artistico. L’arte è uno di quegli strumenti che servono tantissimo all’essere umano per empatizzare sia con se stesso che con gli altri. Più ce n’è, meglio è. Ma soprattutto più ce n’è a portata di tutti, meglio è. Perché spesso l’arte è molto elitaria. Sono convinto, invece, debba arrivare a tutti.

Spesso il lavoro in campo artistico non è considerato un vero lavoro. Secondo lei perché?

Non me lo spiego. Siamo un paese che nasce e si alimenta di cultura. Lo ha sempre fatto. Però evidentemente nel corso degli anni a qualcuno è sembrato che questa cosa non funzionasse e hanno cambiato un po’ la rotta. Ci sono altri paesi che invece godono di arte, non solo dal punto di vista artistico ma anche economico. Non sono un politico quindi non so dire come si fanno determinate cose. Ma sono convinto che l’essere umano abbia bisogno di arte per crescere. Se togli l’arte al popolo, il popolo diventa più chiuso.

Giancarlo Commare e Benedetta Gargari in una scena di Skam Italia

Giancarlo Commare e Benedetta Gargari in una scena di Skam Italia. Netflix

È diventato molto popolare da giovane. Come si rimane con i piedi per terra?

Non so se sono a terra, se sono volato, se sono andato da qualche parte. Sono solo io. Ho gestito la cosa come pensavo di doverla gestire. È bellissimo trovare il riconoscimento delle persone. Però all’inizio non è stato facile. Da un momento all’altro esci di casa e ti rendi conto che non hai più privacy. È un po’ traumatico. Soprattutto perché il boom c’è stato proprio dopo che siamo usciti dalla fase di quarantena dove tutti avevano visto Skam. Mi piace sicuramente molto di più quando, piuttosto che la foto o un momento fugace, c’è qualcuno che voglia condividere un dialogo. È bello quando ci si conosce, anche se per pochissimo.

Ci sarà nella prossima stagione?

Non lo posso dire (arrossisce, ndr).

Non è questo il periodo. Ma se il telefono non squilla come la vive?

La vivo male. Sempre. Anche mentre sto lavorando. Non sono una persona che sa stare più di un’oretta ferma a letto. Piuttosto sposto i mobili (ride, ndr). Anche quando lavoro come in questo periodo in cui sto facendo tantissime cose, già sto con l’ansia per quello che dovrò fare dopo. A un certo punto mi calmerò.

Se non avesse fatto l’attore?

Sicuramente avrei fatto qualcosa nel campo artistico. Magari avrei lavorato dietro le quinte o avrei fatto il regista o cantante. È una cosa che mi è sempre piaciuta ma che avevo sepolto. Tutti parlano di Jamie l’ha risvegliata.

Da qui a 10 anni come si vede?

È difficile questa domanda. Non so neanche come vedo domani (ride, ndr). Spero di vedermi felice, come lo sono anche adesso. Spero di aver diretto il mio primo film. E di aver comprato una casa e una macchina. Così da potermi scarrozzare in giro da solo.