L’orgoglio pugliese di Michele Riondino, quello politico ed emotivo per l’amico e sodale di Elio Germano sono tra le cartoline più belle di questi 69esimi David di Donatello. Perché ci ricordano un cinema che aveva il coraggio di inchiodarci alle nostre responsabilità, non compromissorio né paracelo, rigoroso e appassionato.
Quel cinema, lo avevamo già sottolineato nell’articolo in cui lanciavamo la cover speciale per i David, che in fondo ha guadagnato l’oblio a Elio Petri (non a caso nel 2017 l’attore e ora regista è stato insignito del Premio Volonté, attore simbolo del cinema petriano, a La Valigia dell’Attore alla Maddalena), guarda caso tra i geni meno ricordati dal nostro cinema, capace com’era di non essere mai compromissorio, di indagare i cittadini al di sopra di ogni sospetto, di guardare nella nostra società – commissari, politici, preti e sì anche proletari che hanno in sé la vittima, il carnefice e il joker impazzito – e spietatamente ritrarre cosa e come eravamo diventati.
Cosa eravamo e siamo ancora adesso.
Michele Riondino, dall’Unomaggio ai David
Ecco perché vedere Michele Riondino alzare quella statuetta – sarebbe stata quasi da alzarla al contrario, ma in fondo tutti noi abbiamo diritto a gioire per ciò che facciamo e vinciamo, non si deve sempre lottare -, così come Diodato e Elio Germano (non protagonista meritatissimo sia pur sfavorito, compagno di lotte e di set dell’attore e regista di Taranto già da tre film, fu Daniele Vicari, altro duro e puro, che li mise insieme per la prima volta nel durissimo Il passato è una terra straniera), fa bene.
Non solo perché ad almeno uno dei nostri sei “beniamini” siamo riusciti a portar fortuna – è una battuta, sapevamo e d’intenzione abbiamo agito per puntare la luce sui talenti e non sui favoriti -, ma perché in un’arte e un’industria in cui troppo spesso paura e autocensura, disimpegno e ipocrisia aleggiano, ha trovato spazio tra i premi più importanti Palazzina Laf, opera potentissima e alternativa, la storia di Caterino che è quella di tutti noi, massacrati dentro e fuori da una società predatoria, cinica, che ci obbliga a perdere la dignità, neanche a più vendere l’anima, ma ad affittarla, a prestarla a cottimo.
Michele Riondino ed Elio Germano sono due animali in via d’estinzione, riluttanti a red carpet e terrazze, capaci di vestire panni scomodi e trucchi e parrucchi improbabili, per ricordarci che da Tempi Moderni a La classe operaia va in paradiso si può unire grottesco e simbolismo, politica e cinema, far diventare iconico l’atroce, cannibale sfruttamento del e sul lavoro.
Perché il lavoro rimane al centro di tutto, anche se l’hanno nascosto nel dibattito pubblico, artistico, intellettuale. Quel lavoro che debilità l’uomo, non solo fisicamente. A Taranto l’Ilva ha corroso da dentro intere generazioni. E non solo con tumori e polveri sottili, per questo queste tre statuetta a 48 ore dall’Unomaggio tarantino, espressione della passione civile di Riondino, della sua abnegazione alla lotta per ciò che è giusto (anche e soprattutto quando è sconveniente) sono una partitura che per una volta non stona neanche un po’.
Presidente, lo premi (anche) lei
E sarebbe bello, sia pure nell’imparzialità e nella terzietà a cui è costretto il Presidente della Repubblica, che Michele Riondino, outsider che si piazza inaspettatamente dietro altre opere di grandi maestri ed esordienti che hanno spaccato il box office volendo affrontare temi importanti (sarà un caso?) come Io capitano (l’immigrazione), C’è ancora domani (la violenza di genere) e Rapito (l’arroganza e la violenza in nome della religione), trovasse un riconoscimento, quindi, non solo cinematografico, ma anche politico.
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Perché se non dobbiamo dimenticare che Palazzina Laf è innanzitutto uno dei più bei film degli ultimi anni, artisticamente parlando, e anche grazie alle performance attoriali di Michele Riondino (noi gli avremmo dato anche il miglior esordio, ma era pure giusto celebrare Paola Cortellesi, la cui messe di nomination evidentemente ha dato, usando un’espressione bellocchiana, moderatamente fastidio ai suoi colleghi ed è stata un po’ ridimensionata dai giurati alla seconda tornata di votazioni) e di Elio Germano, oltre che alla musica di Diodato, è pur vero che ha in sé il seme di una rivoluzione culturale.
Palazzina Laf è un’opera che ti spezza dentro, che va ben oltre Taranto, che riscrive i connotati di una lotta dimenticata e del tradimento che troppo spesso subisce. Riporta le responsabilità alle vittime che non possono e non devono accontentarsi di essere tali e devono interrogarsi su ciò che possono e devono fare.
E allora Presidente, lei che occupa così degnamente la sua carica anche in questo secondo mandato, dovrebbe dare a questo ragazzo un’onorificenza politica e civile. Un Ordine al Merito della Repubblica Italiana, un Cavalierato. Leggo dal sito del Quirinale che sta a “ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, della economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari”. Appunto.
Non le chiedo di fare qualcosa di sinistra, presidente, solo qualcosa che faccia capire che bisogna vergognarsi non di una libera e sarcastica espressione del proprio pensiero, ma del fatto che se le succede qualcosa, caro Sergio Mattarella, a sostituirla sarà Ignazio La Russa, in quanto presidente del Senato (e mi perdoni, ma questo mi sembra davvero un vilipendio a una carica istituzionale, la sua). E a quel punto non sarà una foto a ribaltarsi sui social (che poi che offesa è, ricordare un’immagine iconica dell’idolo della persona in questione? Chissà), ma i nostri padri della patria, nella tomba.
Michele Riondino da sempre agisce perché la nostra società migliori: con la musica, con il cinema, con l’impegno personale e collettivo. Fin da quando non aveva questa visibilità. Ha migliorato il luogo in cui è nato e vissuto, ha lottato per esso, ha esordito schiaffeggiandoci con lo squallore in cui siamo piombati come cittadini e lavoratori. Se lo merita. Ce lo meritiamo.
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