Fabrizio Gifuni: “La marcia delle donne è stata un 25 aprile. Una festa di liberazione e ribellione”

"Donne e uomini sono stati insieme con una consapevolezza avvertita nel corpo": non ha dubbi l'attore, uno dei più amati del cinema italiano, protagonista di una masterclass al TFF. E per quanto riguarda il futuro della settima arte il giudizio non è tenero: "Perché se entri in un meccanismo che è unicamente quello della produzione e del consumo, le idee si inaridiscono". L'intervista con THR Roma

All’ingresso della nuova aula magna d’ateneo, alla Cavallerizza reale di Torino – alle cui spalle svetta imponente la Mole Antonelliana – c’è una fila silenziosa e ordinata di persone che sfidando temperature non propriamente miti aspettando di poter entrare per assistere alla masterclass di Fabrizio Gifuni, tra gli ospiti del 41° Torino Film Festival per parlare dei suoi film e dei registi con i quali ha lavorato.

Lo incontriamo in un salottino incavato al di sotto della struttura in legno. “Che facciamo?”, domanda a THR Roma. Solo ventiquattro ore prima lo avevamo incontrato nella Capitale a marciare insieme ad altre migliaia donne e uomini per manifestare contro la violenza di genere. “È stato un 25 novembre come se fosse un 25 aprile. Una festa di liberazione”.

Gifuni, a Roma ha sentito di aver preso parte a una pagina di storia del nostro paese?

È stata una giornata abbastanza storica, sì. Spesso le “giornate dedicate a” rischiano di diventare degli appuntamenti stanchi e di routine. Come se un argomento così importante come la violenza sulle donne avesse bisogno di un momento specifico. Un discorso lungo che vale per tutte le ricorrenze. Quando succede qualcosa come quella di ieri, dovuta purtroppo a un recente fatto così tragico, si sente subito qualcosa di diverso. E ieri in piazza è successo. L’ho detto. È stato un 25 novembre come se fosse un 25 aprile. Una festa di liberazione. Intendiamoci, temo che dalla violenza sulle donne e dalla violenza in genere non ci sarà mai liberazione totale.

Ma una giornata come quella di ieri è stata a suo modo una festa. Di ribellione, perché donne e uomini – e ce n’erano tantissimi – sono stati insieme con una consapevolezza avvertita nel corpo. Bisognava esserci. Era talmente chiaro perché quelle strade e quei corpi avevano voglia di stare insieme. Tutto si capiva allargando il campo, non soltanto per la presenza incredibile di centinaia di migliaia di persone. Quando ero in piazza seguendo il corteo avevo la sensazione che fossero molte migliaia. Ma mezzo milione vuol dire che sta succedendo qualcosa.

Rapito, l'inquisitore interpretato da Fabrizio Gifuni

Rapito, l’inquisitore interpretato da Fabrizio Gifuni

Nel presentare il listino della 01 Distribution, Paolo Del Brocco ha annunciato la produzione di meno film nel 2024. Senza entrare nel merito di questo annuncio, crede che all’industria cinematografica italiana farebbe bene puntare un po’ di più sulla qualità?

È un discorso complesso. Ci vorrebbe almeno una mezz’ora (ride, ndr). Sono d’accordo sul fatto che bisognerebbe puntare sulla qualità. Anche se sembra una cosa ovvia da dire purtroppo non è scontata per niente. Perché il principio dell’accumulo quantitativo non riguarda solo il cinema ma tutti i settori della produzione. È una specie di piaga. Vale anche in teatro.

Le leggi che sono state fatte negli ultimi decenni andavano a premiare quanto si produceva e non più cosa si produceva, dimenticandosi la grandezza – per restare in ambito teatrale – dei grandi luoghi che hanno fatto la storia di questo paese come il Piccolo di Milano. La situazione al cinema si è ulteriormente complicata con l’avvento delle piattaforme e delle OTT (servizi multimediali serviti via internet, ndr) perché questo ha portato a un’iper-produzione, un dover riempire continuamente. E quando si riempie tanto si creano delle bolle che poi esplodono: perché dove le metti tutte queste cose?

Le piattaforme.

Senza nulla togliere, sono diventate un po’ il deposito di tutta questa produzione. Che succede allora? Per il cinema è un discorso ancor più delicato, perché anche i meccanismi “premiali” di sovvenzionamento pubblico sono stati sempre meno attenti alla produzione indipendente. Quando quest’anno ho ringraziato per il David di Donatello (per Esterno notte, ndr) l’ho dedicato a Claudio Caligari, a Giuseppe Bertolucci, ad Antonio Capuano e a Davide Manuli, con i quali ho lavorato e che mi hanno insegnato sul campo il valore della libertà e dell’indipendenza. Perché se tu entri in un meccanismo che è unicamente quello della produzione e del consumo, le idee si inaridiscono.

Mi piacerebbe che fossero tutelate molto di più le opere – naturalmente meritevoli – di artisti che lavorano con poco, che non hanno bisogno di cifre e di sostegni faraonici. Ma di rimanere in vita. E siccome alcuni di questi registi che ho citato non sono restati fisicamente in vita perché non avevano più ossigeno, è un discorso plasticamente vitale. E questo vale anche per altri registi che hanno fatto della loro professione un investimento di vita che ha a che fare con la creazione artistica. Quindi se non hanno la possibilità di farlo, muoiono.

È stato protagonista di un cameo nell’ultima stagione di Boris. Quant’è importante l’autoironia?

Fondamentale. Spesso mi è capitato di essere costretto a prendere molto sul serio le cose perché quello che vedevo intorno a me, molto spesso, assomigliava a una brutta farsa. Uno sporco lavoro che qualcuno doveva pur fare. Questo però poi alla lunga stanca, è faticoso. Perché non c’è voglia di stare in prima linea. L”ironia e l’autoironia che sono due cose completamente diverse. Ci sono persone molto ironiche ma pochissimo autoironiche. Una cosa poi è l’autoironia autentica, non quella recitata. Che molti sono anche bravi a prendersi in giro facendo finta di prendersi in giro. E farlo è un esercizio molto salutare. Quando mi hanno proposto di fare Boris sono stato felicissimo.

Fabrizio Gifuni in Esterno Notte di Marco Bellocchio

Fabrizio Gifuni in Esterno Notte di Marco Bellocchio

Moro cercava il compromesso. Oggi la politica sembra preferire lo status quo. Dovremmo recuperare il compromesso per poter andare avanti?

“Compromesso” è una parola che, come tante altre, è stata riempita e caricata di un significato totalmente negativo. Diventava cioè sinonimo di un’altra parola terribile: inciucio. No, il compromesso – nel senso più alto del termine – è la faticosa conquista di un punto di equilibrio in situazioni complicatissime. Prendiamo l’orrore a cui stiamo assistendo in Israele e Palestina.

Non voglio assolutamente entrare nel merito di una questione veramente troppo complicata. Ma abbiamo dovuto assistere, oltre al massacro di migliaia di persone, allo sconcio di una polarizzazione fatta con lo stesso carico di aggressività nei confronti dell’avversario, di chi la pensa diversamente da te, di cui non si sentiva minimamente il bisogno. C’è una guerra vera e c’è gente che finge di farsi la guerra sui social media per spiegare all’altro che cosa dovrebbe capire, che cosa dovrebbe fare.

Moro lo aveva capito.

Si rese conto che il paese era bloccato, nonostante fosse l’esponente di un partito che aveva saldamente in mano il potere dal dopoguerra, da più di 30 anni. Ma Moro sapeva che quella situazione avrebbe portato a cose molto dannose e pericolose per il paese e per questo, in quel momento, il suo compromesso storico è inglobare quel 33% di italiani che la pensano diversamente. Perché comprese che se non si fosse creato un accordo fra le forze progressiste in quel momento – il partito comunista – e le forze democratico cristiane conservatrici, l’Italia non sarebbe andata avanti e sarebbe successo qualcosa di terribile. Come è accaduto a Moro in prima persona, che lo ha scontato come vittima sacrificale. E com’è successo anche a questo paese.