“Hanno deciso di farti fuori”, dice Giancarlo Marocchino a Ilaria Alpi, durante una festa nella sua villa a Mogadiscio. Ma questo scambio, presente nel fumetto Ilaria Alpi pubblicato da BeccoGiallo nel 2009, non è mai veramente avvenuto. Ilaria amava stare con la gente del luogo, come dicono le persone che l’hanno conosciuta e uno degli operatori di camera che era con lei in Somalia nel 1994. Quindi non ha mai partecipato insieme agli altri giornalisti al party del controverso imprenditore italiano. Una cosa però è vera. Secondo i colleghi, Marocchino ha riferito di una riunione tra i capi clan e altre figure misteriose: qualcuno voleva uccidere un reporter italiano.
Questa è una licenza letteraria, come segnalata dallo stesso autore del fumetto Marco Rizzo, che con il disegnatore Francesco Ripoli ha ricostruito la storia della giornalista del Tg3 e l’ha raccolta in una toccante e incantevole opera di graphic journalism. L’omicidio di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin è ancora uno dei più grandi misteri d’Italia, una delle sue pagine più oscure. Quel 20 marzo del 1994 i due sono stati assassinati con colpi di fucile durante un agguato, perché stavano investigando su un traffico di armi e rifiuti tossici italiani in Somalia durante la guerra civile. E da quel giorno sono passati trent’anni, e ancora non è stata fatta giustizia.
“Ci sono state operazioni di depistaggio lungo questi decenni, anche spudorate e palesi e profondamente vergognose, che rendono impossibile per chiunque fare una ricostruzione esatta”, spiega Rizzo a The Hollywood Reporter Roma, parlando di come ha rappresentato alcune delle sequenze di questa storia. Rizzo, sceneggiatore e giornalista professionista, è uno dei principali esponenti del graphic journalism italiano. Ha realizzato anche fumetti su Peppino Impastato, Che Guevara e il reportage per Feltrinelli Comics Salvezza, il racconto della sua esperienza a bordo della nave per il soccorso dei migranti Aquarius, con i disegni di Lelio Bonaccorso.
Negli anni ha collaborato anche con Wired, Il Giornale di Sicilia, La Lettura e l‘Unità, e ha pubblicato l’inchiesta Incendi in Sicilia: Fuoco blasfemo sulla rivista La Revue Dessinée Italia con i disegni di Margherita Tramutoli, in arte La Tram.
Sul graphic journalism, Rizzo sostiene che la percezione dei fumetti e la loro importanza è cambiata nel corso degli anni, in meglio. “E anche se dovesse permanere il pregiudizio, tipico italiano, secondo cui i fumetti sono per bambini, a me va bene. Perché abbiamo sfruttato questo pregiudizio per entrare nelle scuole e parlare di Ilaria Alpi, di ecologia, mafie e migrazione”.
Perché ha scelto di raccontare la storia di Ilaria Alpi?
I misteri, i depistaggi e le ombre sul caso Alpi sono ancora una delle macchie più vergognose della storia nel nostro paese. Sono passati 30 anni e ancora parliamo della sua storia, questo dimostra che è una ferita ancora aperta. La proposta mi è arrivata dalla casa editrice BeccoGiallo, era il 2008 e all’epoca ero ancora uno sceneggiatore e giornalista alle prime armi. Ho accettato di buon grado, e mi sono appassionato alla vicenda, e fin da subito abbiamo avuto il sostegno dei genitori di Ilaria Alpi.
Prima di lavorare al fumetto abbiamo contattato anche tanti colleghi, tra cui Giovanna Botteri che ha scritto la prefazione del libro, abbiamo contattato anche il premio Ilaria Alpi, che a Riccione aveva tantissimi materiali a disposizione. E poi ci siamo studiati le interrogazioni parlamentari, la contro-interrogazione della minoranza, e anche i documenti processuali. C’è stato un anno di lavoro intero prima di scrivere la sceneggiatura.
Avendo fatto un percorso da giornalista, la storia di Ilaria Alpi è un esempio da seguire, anche per le inchieste che poi sono arrivate dopo la sua morte.
Nel fumetto avete preso decisioni interessanti di racconto. Chiaramente ci sono lati oscuri nella vicenda, come avete lavorato in tal senso?
L’inizio del fumetto è un racconto “a passo di gambero”, mostrando immediatamente l’omicidio. Perché, per citare un grande titolo, di sicuro in questa storia c’è solo che è morta. Siamo tutti convinti che sia stata uccisa per aver scoperto un traffico di armi e rifiuti tossici, questa è una verità forse non processuale, ma storica. Anche grazie alle inchieste.
Ci sono state operazioni di depistaggio lungo questi decenni, anche spudorate e palesi e profondamente vergognose, che rendono impossibile per chiunque fare una ricostruzione esatta.
Il fumetto ci permette, per la sua forma di narrazione, di lasciar parlare le immagini. Di dare delle suggestioni, come quando raccontiamo l’intervista al Sultano Mussa Bogor: il nostro punto di vista si allontana perché non abbiamo un video, che non è arrivato a noi o perché hanno staccato la telecamera. In coda al libro abbiamo infatti segnalato quali sono state le nostre scelte narrative, spiegando ciò che è vero e ciò che non lo è.
Il graphic journalism sta riprendendo dello spazio o è ancora di nicchia?
Quando ho cominciato io eravamo agli albori della rinascita del graphic novel e della forte presenza del fumetto in libreria. Negli anni, anche grazie a editori al tempo più piccoli, quello spazio si è espanso a forza, dimostrando che c’è un’offerta e una richiesta del pubblico. È un cambiamento che si deve ad autori come Gipi e Zerocalcare, nel nostro piccolo anche grazie al lavoro che abbiamo svolto con Lelio Bonaccorso negli ultimi quindici anni.
Avere un tesserino da giornalista magari crea più fiducia in un lettore nei miei riguardi. E il graphic journalism ha avvicinato al fumetto più persone che sono interessate al tema piuttosto che al linguaggio. A temi come Peppino Impastato o il soccorso in mare ai migranti.
C’è stata una grande visibilità, presenza e fiducia anche da parte dei grossi gruppi editoriali. Le cose sono cambiate in meglio. E anche se dovesse permanere il pregiudizio, tipico italiano, secondo cui i fumetti sono per bambini, a me va bene. Perché abbiamo sfruttato questo pregiudizio per entrare nelle scuole e parlare di Ilaria Alpi, di ecologia, mafie e migrazione. Abbiamo usato il fumetto come un cavallo di Troia.
Come si racconta Ilaria Alpi nelle scuole?
È un caso molto complesso da portare nelle scuole, va trattato con una certa delicatezza. Ricordiamo che c’è una persona che ha passato 17 anni in galera da innocente. Ci sono complicanze sulla procedura processuale, documenti e cassette che sono sparite, sigilli aperti durante il trasporto dei corpi di Ilaria e Miran. E anche certificati di morte che spariscono, individui che vengono “sbianchettati”.
Nel conflitto a fuoco in cui sono morti Ilaria e Miran ci sono state altre due persone ferite. Un giornalista, Giovanni Maria Bellu, ha guardato i registri di quell’ospedale di Mogadiscio notando che i due nomi erano stati, appunto, “sbianchettati”, e sostituiti con quelli di altre due persone.
Gli studenti, oggi, conosco il linguaggio del fumetto, e quando vado nelle scuole spesso gli faccio fare del gioco di ruolo: metto le sedie vicine e ricostruiamo la dinamica dell’omicidio come se loro fossero nel pick-up. Dipende ovviamente dalla classe, solitamente sono ragazzi delle superiori. A loro spiego i luoghi in cui si svolgono queste vicende, e come alcuni video di repertorio sono diventati vignette del fumetto.
Uno degli aspetti che più mi confortano è che certi ragazzi non riescono a credere che siano successe determinate cose, soprattutto in termini di depistaggio. Bisogna spiegar loro l’argomento nella maniera più onesta possibile. Anche per instillare in loro non tanto una sorta di animo di ribellione, quanto il saper mettere in discussione il potere costituito, per pensare a un progresso e a un cambiamento. Il nostro paese deve molto a certe rivoluzioni che sono partite da una forte spinta dal basso.
E il progresso sarà inevitabile anche per il mix etnico che ci sarà nelle prossime generazioni. I ragazzi di seconda e terza generazione porteranno un cambiamento. Alla fine, parlare di questi temi, che mettono in difficoltà l’istituzione, serve a spiegare che non bisogna mai fermarsi al primo livello, che bisogna studiare e mettere in discussione.
All’inizio del libro lei scrive: “A tutte quelle persone preziose per le quali la ricerca della verità rappresenta un imprescindibile dovere morale”. Il giornalismo è un dovere morale e civile?
Dovrebbe esserlo. Oggi il giornalismo è preda di altre pulsioni, di click, di pubblicità e visibilità. Che sono conseguenze di errori e malcostumi del giornalismo nel nostro paese, ma anche di una campagna anti giornalismo che è stata fatta negli anni da parte di figure politiche di spicco. Questo ha portato ha una mancanza di fiducia nei confronti della stampa.
Sicuramente siamo in una fase di transizione. È un mestiere che si deve adeguare al tempo mantenendo sempre alta l’aspirazione etica e morale. Soprattutto il rispetto verso i fatti.
Oggi si discute di leggi bavaglio e di attacchi al giornalismo libero. Secondo lei, in Italia, il giornalismo è libero?
Non è un momento ideale. Oggi il lavoro di giornalismo è fatto in buona parte dai freelance, che non hanno garanzie contrattuali o assicurative, che vanno in zone di guerra senza sapere se riusciranno a piazzare ciò che hanno trovato, l’articolo che hanno scritto o il video che hanno girato.
Lo fanno i giornalisti di provincia, che magari non subiscono minacce di morte, come prima capitava di più, ma subiscono minacce di querela e che finiscono per essere sopraffatti. Lo fanno persone sui giornali che campano grazie a grossi investimenti di grandi gruppi industriali, che potenzialmente potrebbero rendere meno libera un’inchiesta su una determinata azienda. Questa è la fase in cui stiamo vivendo.
Poi le pratiche disoneste nel giornalismo sono sempre esistite. Adesso stanno cambiando la comunicazione e la società, e questo mette a rischio determinati fondamenti. Se poi dall’altra parte ci si mette di mezzo pure il governo – soprattutto quello corrente che ha una certa ritrosia nel dare fiducia alla stampa – la situazione non aiuta. La famosa conferenza stampa sulla strage di Cutro lì a Cutro è stato il momento più basso del governo sul lato comunicativo.
Siamo in una lunghissima fase di cambiamento, e per rispondere alla domanda in maniera schietta: no, il giornalismo in Italia non è libero.
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