È il 1999 e Francesco, dieci anni, è assalito da una paura indefinibile, un’angoscia che lo tormenta. Il Millenium Bug di fine secolo risveglia in lui una sensazione nuova, quella che poi si rivela vera, di un mondo “vecchio” che sta per finire.
Inizia da qui Il compleanno di Enrico, cortometraggio di Francesco Sossai che, dal debutto alla Quinzaine des Cinéastes a Cannes 2023, torna “a casa”, sulle Dolomiti del Cortinametraggio 2024, dove vince il premio speciale della storica produzione Titanus di Guido Lombardo e il premio speciale del comune di Belluno.
Girato in pellicola 16mm, Il compleanno di Enrico evoca un sentimento comune, una solitudine che appartiene a tutti, ma in particolare ai bambini, nel passaggio, verso l’ignoto, ai ragazzi e agli adulti che diventeranno. Lo fa con uno sguardo d’autore e con precise scelte di stile: “Ho cercato di ricreare le atmosfere degli horror degli anni Settanta, di Bava e Fulci, perché erano sconvolgenti e perché dopo averli visti, da bambino, ho iniziato quasi a guardare ogni cosa attraverso il filtro dato dai quei film. Accentuavano le emozioni che provavo”. Come spiega il regista nell’intervista con THR Roma.
Da Cannes a maggio, fino a Cortinametraggio, sulle sue Dolomiti: come è stato il viaggio di Il compleanno di Enrico fino a qui?
Ci sono stati molti festival dopo Cannes, circa quaranta, un grande giro internazionale in diversi continenti. Per me la cosa interessante, però, nel tornare qui, nelle montagne dove ho girato, è che io nel film ho mostrato un luogo reale, non l’ho nascosto. E più mi ci avvicino, più è difficile. La pressione aumenta perché sento che c’è più gente che ci si può riconoscere.
Si percepisce come un “luogo dell’anima”.
Sì, cioè proprio il mio paese (Feltre, provincia di Belluno, ndr). Mi sono accorto, negli anni in cui studiavo all’estero, che quando sognavo, i miei sogni erano sempre ambientai lì. Se leggevo un libro, anche se parlava di Russia o America, io me l’immaginavo lì. Quel paesaggio è un po’ tutto quello che ho, in qualche modo, quindi per me è interessante continuare a riprenderlo. È come se ogni volta entrassi da una strada diversa dentro il paese. L’ho fatto con il primo film, adesso col corto, e lo farò anche con i prossimi.
A questo proposito, come gestisce il passaggio dal lungometraggio al corto? Qualcosa cambia nel suo sguardo?
No, no cambia ma al tempo stesso ogni storia necessita di un suo formato, di una durata diversa, di uno stile diverso. Cerco quindi di fare un po’ tabula rasa ogni volta, provare una cosa nuova, rientrarci dentro in maniera diversa.
Che riferimenti ha avuto quindi per Il compleanno di Enrico?
Mi interessava molto ricreare la sensazione che lasciavano addosso quei film horror, un po’ proibiti, che magari capitava di vedere da bambino in tv la notte, per sbaglio. Mi interessava perché quei film assalivano i sensi e volevo fare qualcosa che riproducesse il modo in cui io vedevo le cose all’epoca. Ho cercato di ricreare le atmosfere degli horror degli anni Settanta, di Bava e Fulci, perché erano sconvolgenti e perché dopo averli visti, da bambino, ho iniziato quasi a guardare ogni cosa attraverso il filtro dato dai quei film. Accentuavano le emozioni che provavo. È quello che ho cercato di ricreare.
Per questo anche la scelta di girare in pellicola 16mm?
È un formato che aiuta a ricreare subito una determinata atmosfera, però devo dire che facendo io film molto atmosferici, girare in pellicola è l’unico modo che ho per poterli rappresentare veramente. Per rendere un po’ visibili proprio le atmosfere in maniera molto più chiara.
Sembra quasi l’atmosfera di un ricordo. Come diceva Annie Ernaux nel suo documentario (I miei anni in Super 8), “si filma tutto ciò che non si può vivere due volte”?
Per me, forse, più che un ricordo, filmare è l’espressione di un desiderio, di come vorrei vivere le cose, più che di come le ho vissute. Cioè c’è molto desiderio, c’è molta paura anche dentro quello che riprendo, paura di scoprire come vedo le cose.
Qual è il suo desiderio, allora in Il compleanno di Enrico?
Il desiderio dentro il film è una specie di straziante lettera a mio padre, forse.
E la paura è il Millenium Bug da cui inizia la storia?
All’epoca il Millennium Bug mi aveva terrorizzato, perché non avevo capito che eravamo già così dipendenti dai computer. Era stato uno shock capire che c’era questa realtà informatica, digitale, che era già così presente nelle nostre vite. Una parte di tutta questa paura, che poi si è rivelata vera, è che quelli erano gli ultimi momenti di un certo mondo, perché poi dopo il G8 di Genova e le Torri gemelle siamo entrati in un altro stato di emergenza molto forte, che ha distrutto tutto ciò che era stato fino a quel momento. Anche prima, negli anni Novanta, almeno qui in Veneto, avevamo la guerra accanto, ma sembrava lontana. Era un mondo distante.
Oggi cosa potrebbe essere qualcosa in grado di suscitare la stessa angoscia nei bambini?
Il problema è che siamo abituati alla paura, viene normalizzata. Si pensi a film come La zona di interesse, adesso. Raccontano un po’ questo, di come siamo abituati all’orrore che sta appena dopo la nostra porta. E alla deumanizzazione che mettiamo in atto per poter sopravvivere psichicamente in questo mondo, un po’ di fantasia, che è l’occidente. Un mondo che ha sempre più, secondo me, le logiche del sogno, dell’onirico. Mentre la realtà resta ai bordi.
A Nicola Cannarella, l’attore che interpreta Francesco, il bambino, ho chiesto a un certo punto quale fosse per lui una grande paura. Avendo girato nel 2022, quando Putin ha risvegliato l’incubo della guerra, lui mi ha risposto che aveva paura della guerra atomica. Mi ha fatto riflettere su quanti elementi di orrore, di paura, ci siano oggi.
Come ha lavorato con il giovane Cannarella per portare sullo schermo quel sentimento così particolare e generazionale, quel “ti odio ma non posso mancare alla tua festa, non posso restare escluso”?
Non mi piace parlare con gli attori del sentimento del film. Mi interessano più i processi la reazione a determinate situazioni. Mi piace capire cosa provano loro in quel momento. Sicuramente però è stato un bel lavoro con lui, perché c’era quel senso del sentirsi dentro e allo stesso tempo fuori, esclusi dalle cose. Ci siamo molto confrontati su questo. Ho cercato di ricreare una sensazione che abbiamo provato tutti, quella di una fase in cui non hai veramente amici. Gli amici, cioè, sono quelli che vengono alle elementari con te, i tuoi vicini di casa, i ragazzi del paese, ma non li hai scelti tu, perché a quell’età non sai nemmeno chi sei tu, veramente. Ciò che hai è solo una specie di strana difficoltà nell’entrare in contatto con gli altri, almeno per me era così. Ho cercato di cogliere l’orrore nel cuore della quotidianità delle relazioni, che a un certo punto, secondo me, tutti provano nella vita.
Su questo, il brano finale ha contribuito a dare un senso ulteriore. Come l’ha scelto?
Lucio, del gruppo bellunese Non voglio che Clara, è un brano composto proprio per il film. Ho spiegato loro l’idea del film e la storia da cui nasce e ho dato a Fabio De Min, voce e autore del gruppo, una pagina di diario con le impressioni e le emozioni che volevo raccontare. De Min poi mi ha proposto questo testo, che in realtà parla del futuro di quegli stessi bambini, di un compleanno di 18 anni, di come si va avanti e di come si può diventare, a quell’età in cui sei già te stesso, ma devi affrontare tanti bivi, con l’ansia di conformarti agli altri. È questo che può portarti a diventare un’altra persona. Senza Lucio, per me Il compleanno di Enrico non sarebbe lo stesso film. La canzone dà un’altra prospettiva, uno sguardo improvviso sul futuro.
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