Il silenzio che precede la luce accecante della bomba. Il rumore della morte che promana da Auschwitz. Uguali e opposti in maniera speculare, i due trionfatori degli Oscar 2024. Strano che finora nessuno abbia fatto emergere la circostanza che Oppenheimer e La zona d’interesse provengano dallo stesso squarcio della storia, promanino dallo stesso vortice del Novecento, quella frattura del percorso umano che parla con tanta prepotenza al nostro presente: la seconda guerra mondiale, gli abissi dell’orrore nazifascista, la vertigine paurosa dell’atomica, la fine del mondo come opzione reale, lo sterminio.
No, non è un caso, ovviamente. Paradossalmente “si parlano” la pellicola di Christopher Nolan – diventato campione dei blockbuster sull’onda di Batman, il cavaliere oscuro – e quella di Jonathan Glazer, che come tutti sanno ha un passato di regista di videoclip, tra cui uno celeberrimo di Jamiroquai (Virtual Insanity), qualcosa dei Radiohead e dei Massive Attack. Ambedue sono britannici, il primo ha vinto tutto quello che in questo doloroso scorcio di tempo è vincibile (miglior film, miglior regia, migliore interpretazione maschile, tra gli altri), il secondo era sin dall’inizio largamente favorito ed infatti si è portato a casa la statuetta della migliore pellicola internazionale, sbaragliando, tra gli altri, Io capitano di Matteo Garrone.
Quel che è vero è che ambedue i film si trovano al crocevia più doloroso tra storia e presente, creando un cortocircuito di significati formidabili per il nostro tempo: e non a caso il discorso di accettazione di Glazer (“tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e confrontarci con il presente”, ha detto al Dolby Theatre, specificando che da ebreo “rifiuta l’occupazione” di Gaza) sta scatenando un ampio dibattito, né è banale affermare che l’ombra dell’armagheddon atomico – originato dal Prometeo-Oppenheimer – si staglia sulle nostre coscienze ogni volta che è evocata da Vladimir Putin sullo scenario di guerra dell’Ucraina.
I milioni che hanno visto Oppenheimer – la storia controversa, comunque drammatica, del padre dell’atomica – sanno bene che la corsa nucleare fu innescata (anche) dal timore che la Germania hitleriana ci arrivasse prima, alla bomba, mettendo fine al mondo conosciuto (peraltro quella storia, ossia gli sforzi dei volonterosi scienziati del Führer di realizzare l’atomica ribaltando i destini del conflitto, non ha ancora finito di essere raccontata fino in fondo).
E i milioni che stanno vedendo La zona d’interesse – il racconto, agghiacciante, della quotidianità del comandante di Auschwitz – forse non sanno che, stando a non poche testimonianze e ricostruzioni, nelle gallerie sotterranee di un altro campo di concentramento, quello di Gusen (sottocampo di Mauthausen), i nazisti probabilmente stavano portando avanti ricerche nucleari ad uno stadio molto avanzato, tanto da indurre Hitler a sperare in un repentino ribaltamento dei destini della guerra, che tra fine 1944 ed inizio 1945 sembravano già scritti. A sua volta, Oppenheimer lavorò in modo infaticabile alla bomba proprio perché in quel momento la Germania nazista aveva avviato la più colossale e meglio organizzata operazione di sterminio della storia.
Oppenheimer e Zona d’interesse, pur nelle differenze – che sono anche profonde – sono tutt’e due figli del nostro tempo, cinematograficamente parlando: non solo per i silenzi ed il sonoro (così come nel film di Glazer si sente quasi ininterrottamente il suono della ciminiera del lager, così quello di Nolan è sostenuto quasi sempre da una specie di rombo come fosse una profezia di un’esplosione atomica che verrà), ma anche per l’uso del colore, che si alterna qualche volta al bianco e nero, e per quello che potremmo chiamare l’umore di fondo dei due lavori, così diverso dalla stragrande maggioranza dei blockbuster cui siamo abituati ai nostri giorni.
Di contro, è altrettanto vero che sono complementari i due personaggi principali: anche se raccontato in modo “caldo”, J. Robert Oppenheimer è pur sempre “il distruttore di mondi”, mentre Rudolf Höss, il comandante del campo di Auschwitz, ritratto in modo assolutamente “gelido”, è uno che la distruzione del mondo la realizza nella pratica quotidiana, organizzando alla perfezione l’incessante macchina di morte che era il lager divenuto il simbolo dell’Olocausto. Ebbene sì, è la possibilità della “distruzione del mondo” il tema comune dei due film che hanno trionfato agli Oscar.
E dall’Ucraina alla Palestina, intorno a noi, è la “distruzione del mondo” la suggestione dominante, quella che sta governando le nostre vite, che lo si voglia ammettere o meno, per cui anche il nostro immaginario. I due trionfatori della notte dell’Academy, con i loro silenzi ed i loro suoni di morte, già abitavano le nostre coscienze. Per questo hanno vinto.
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