Se è facile capire e spiegare la trama e l’intento de La zona d’interesse, lo è altrettanto decifrare la meravigliosa e terrificante scena iniziale con cui comincia. Jonathan Glazer, regista e sceneggiatore di ritorno dieci anni dopo Under the Skin (2013), mette il titolo della pellicola su uno sfondo nero e lascia lo spettatore ad una lunga introduzione di quasi quattro minuti.
In questo frangente il pubblico ha tutto il tempo di acclimatarsi, mentre il film inizia, anche se sullo schermo non passa nessuna immagine. C’è solo una scritta, La zona d’interesse, che piano piano indietreggia, sfuma, fino a scomparire, lasciando ancora qualche momento gli spettatori seduti al buio. Non ad aspettare, perché l’opera è già cominciata.
La zona d’interesse parla di una famiglia di nazisti la cui casa confina con il campo di concentramento di Auschwitz in cui vive una vita pressoché normale. Il padre è negli alti ranghi del plotone e comanda il lager, la moglie passa le giornate a prendersi cura dei figli, della casa e del suo prezioso giardino. L’Olocausto non si vede mai. C’è, ma non lo vediamo.
Se perciò la prima sequenza del film omette completamente l’immagine, la esclude dalla partecipazione del pubblico al film, è perché non sarà mai rilevante. Mai rispetto al suono. Con l’opera candidata agli Oscar per il miglior sonoro a Tarn Willers e Johnnie Burn.
Il viaggio dal nero all’immagine de La zona d’interesse
Dapprima è la colonna sonora di Mica Levi a partire. Una melodia all’apparenza “normale”, senza fronzoli, come ci si aspetterebbe. È soltanto mentre si attende al buio che la musica comincia a dilatarsi. A contrarsi. A rivoltarsi. A stridere come se qualcuno stesse solcando una ferita in un animale già in fin di vita. È un suono lugubre, viscerale. È un tappeto sonoro quello distorto con cui la non scena prosegue e porta già allo sfinimento, ma siamo solo all’inizio. E, all’inizio, fu il Verbo. Verbo che, in questo caso, si trasforma in natura.
Come Dante che è passato per gli inferi ed è pronto a rivedere le stelle, così lo spettatore attraversa la notte dell’anima della sequenza d’apertura che, nel suo passaggio, incontra lo strusciare delle foglie, i rivoli di acqua, qualche animale in lontananza. Dalla morte, improvvisamente, si passa alla vita.
E, come dalla Terra si è passati poi all’uomo, così anche ne La zona d’interesse si cominciano a sentire i primi piccoli gridolini, pochi versi soffocati, alcune risate. E luce fu. La prima immagine che il film stampa nella membrana oculare dello spettatore è di una famiglia idilliaca che passa la sua giornata ai bordi di un fiume. Nessuno ancora parla. Nessuno ancora spezza un silenzio pieno solo di suoni naturali.
Sono passati quasi sei minuti. Tutto ancora – più o meno – tace. È in questo momento che la famiglia Höss, realmente esistita e realmente ubicata accanto al campo di concentramento di Auschwitz, parla. Ancora piano. Piano piano piano. Un vociare. E, soprattutto, un vociare fuori campo. All’immagine non è ancora permesso di abbinarsi al suono. Non lo sarà mai, in fondo.
Non vedremo mai l’orrore dell’Olocausto, che pure sentiremo per l’intero proseguimento della visione. Anche quando non saremo più vicino ad Auschwitz, anche quando il capostipite Rudolf Höss sarà trasferito. Di notte, in macchina, su di una strada per la via di casa, i personaggi parlano, ma non li vediamo. Li sentiamo.
Campo e fuoricampo, vita e morte
Allora grilli, cicale, cani che abbaiano dalle loro case. Ci vogliono ancora un paio di minuti prima che si sentano le prime urla lontane. Quando La zona d’interesse arriva a toccare gli otto minuti, cominciano i dialoghi. L’assurdo prende vita, più di prima. Mentre un ammasso di cemento divide l’esistenza luminosa degli Höss col grigiore delle sofferenze del campo – che, per suggestione, ci immaginiamo meno luccicante rispetto alla fotografia di Łukasz Żal sulla casa -, i personaggi festeggiano il compleanno dell’uomo-comandante. Più tardi arriveranno anche colleghi, commilitoni, amici.
Agli applausi per la festa si contrappongono degli spari. Un contrappunto sonoro crudele. Sentiamo, da un parte, un uomo che festeggia un altro anno di vita. Dall’altra, invece, qualcuno a cui uno sparo potrebbe avergliela tolta. Da qui in poi, ci saranno costantemente pallottole che trafiggono l’aria, ordini urlati e sbraitati, lo strazio che gli ebrei stanno attraversando.
Guardare, anzi sentire La zona d’interesse sarà come avere a che fare con un disco rovinato, non pulito, come se ciò che si sta ascoltando sia stato sporcato da qualcosa che giace al di sotto. I protagonisti parlano, ridono, giocano, ma se gratti via la superficie scoprirai uomini, donne, bambini e anziani che stanno morendo.
Il rumore diventa la cappa del film di Glazer. Come il fumo, che esce dai treni che arrivano – o dai forni? – e che avvolge a un certo punto il protagonista, rendendo quasi la scena bianca. Un’inquadratura tutta bianca. L’assenza di elementi fisici sullo schermo aumenta il compito dell’udito. E i rumori che lo aspettano sembrano arrivare direttamente da un altro mondo. Si sentono rintocchi, fossero quasi le lancette della morte.
Il suono è una voce che arriva dal magma del cuore dell’inferno. E pensare che poco prima la famiglia era sullo schermo, al letto perché sera, e tutto ciò che hanno da dirsi moglie e marito è domandarsi quando torneranno in quella spa in cui sono stati un giorno in Italia.
I fiori (rossi) di Hedwig Höss
Quando La zona d’interesse arriverà alla scena del tour nel giardino, quando il personaggio di Hedwig Höss di Sandra Hüller mostrerà alla madre l’impegno nel curare i suoi fiori, i rumori saranno pochi, per culminare poi alla fine della sequenza. Ci sarà giusto l’ordine di qualche soldato, quelli che vengono impartiti in continuazione.
Anche i figli ormai lo sanno, tanto che il più piccolo, affacciato più tardi alla finestra dopo aver interrotto il suo gioco, sembra ripetere il “comando” di una recluta alla propria vittima, dato probabilmente dopo averla già martoriata, o uccisa: “Non farlo mai più”. Ma torniamo al giardino.
La padrona di casa fa fare una visita alla genitrice ponendo l’attenzione sulla premura impiegata per fare in modo che tutto nascesse e fiorisse rigoglioso. Mentre si rilassano all’ombra del gazebo, la camera stacca e incornicia i fiori. Alcuni rosa, alcuni gialli, altri rossi.
E così come il nero iniziale e il bianco del fumo, sul rosso di un sangue che non vediamo mai, ma viene evocato, Glazer va in cremisi riempiendo la scena di colore. Nel frattempo le urla di un uomo si ripetono in lontananza, sempre uguali, a intermittenza. Poi il silenzio. Solo rosso. Rosso, anche nelle orecchie. Il sangue ormai è arrivato anche lì.
Sul proseguire, forse solamente uno dei personaggi, la madre di Hedwig Höss, si renderà conto della dissonanza tra la calma di quella casa e ciò che si può sbirciare da dietro le tende. Soltanto la figura di una ragazza – ispirata a Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk della resistenza polacca – si spingerà fuori durante il film, e dato che sosterà in luoghi che non sono destinati ad essere visibili agli occhi degli spettatori, Glazer li intensifica dandogli l’estetica dei visori termici. Il sonoro che li accompagna, in quei momenti, è mostruoso e intestino.
La zona d’interesse: passato e presente risuonano nella memoria
Verso la seconda parte del film, le sole grida che si scambieranno marito e moglie in casa – quindi in campo – sono di Hedwig che non vuole trasferirsi: “This is our living place”, si traduce dal tedesco una frase della donna rivolta al coniuge. Una traduzione che vale più di quella italiana, perché restituisce meglio il senso non solo di “casa”, ma di appartenenza, dell’avere un posto nel mondo.
Il silenzio, poi, torna un’altra volta prima del finale de La zona d’interesse. Il comandante Höss si trova a teatro e, a un certo punto, il chiacchiericcio si spegne. Fino a un attimo prima c’era il terrore. Forse la pellicola ci dice che non è il caso di ascoltare un momento di spensieratezza, di gioia – o, forse, non ne siamo più capaci.
Nella sequenza finale, altro sdoppiamento tra suono e immagine, si apre un varco che unisce passato e presente. Ai passi del personaggio si sostituiranno le pulizie di quel campo di concentramento che solo alla fine vediamo. Anzi, non vediamo, ci siamo dentro. Gli ultimi suoni “orrendi” che sentiamo sono i conati di vomito del comandande Rudolf Höss.
Si sarà reso conto di cosa ha fatto o è per la lontananza della sua famiglia? I rumori del reale de La zona d’interesse sono l’incubo di qualcosa che c’è stato, lo sappiamo, e per questo non serve che lo vediamo. Ma come il ricordo di ciò che è accaduto, Glazer ha trovato il modo di imprimerlo di nuovo nella memoria, passando stavolta per i suoni e i timpani degli spettatori.
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