Úsvit: “Oggi come il 1937: abbiamo grandi progetti ma non siamo ancora abbastanza moderni da realizzarli”

"Le cose cambiano molto velocemente. Anche chi è dalla parte giusta, molte volte si trova davanti a una realtà che muta nel modo sbagliato”. Parla Matěj Chlupáček, regista della pellicola presentata in concorso al Riviera International Film Festival dove ha vinto il The Hollywood Reporter Roma Award col titolo internazionale We Have Never Been Modern. L’intervista di THR Roma

Di intersessualità, ermafroditismo e identificazione di se stessi, parla We Have Never Been Modern: aspetti tanto fondamentali quanto tralasciati, resi celati. Quasi fossero tabù. Ancor più se l’ambientazione dei fatti è quella della Cecoslovacchia del 1937, all’alba di una seconda guerra mondiale della quale in tanti non volevano capacitarsi. In una società retrograda, fatta di ignoranza e pregiudizio, ma costellata anche di persone illuminate, volenterose di cambiare il mondo per davvero.

L’opera per la regia di Matěj Chlupáček – che dopo aver vinto il premio Giò Staiano al Lovers Film Festival vince anche il The Hollywood Reporter Roma Award al Riviera International Film Festival 2024 -, racconta la storia di Helena, una donna incinta, apprendista medico che, sempre munita di un manuale di medicina – che poi risulta essere il saggio We Have Never Been Modern di Bruno Latour, da cui lo stesso film prende il titolo –, a discapito del marito e dei colleghi, decisamente più tradizionalisti e conservatori, persevera in una sua ricerca personale di verità e giustizia, che parte dal caso di un neonato ermafrodito trovato morto tra le macerie.

La donna inizia a interrogarsi su ogni dettaglio di questo caso così complesso, che porta alla scoperta di una realtà che ora definiremmo queer, ma decisamente sconosciuta all’epoca – guidata da Saša, un giovane dipendente con caratteri sessuali sia maschili che femminili. In una neo-civiltà industriale, trainata ancora da inestinguibili dogmi sociali e morali, in cui il profitto regna sovrano, dunque, grazie ad una regia attenta e ai suggerimenti della comunità LGBTQIA+, si racconta uno sporadico, e forse anche inconsapevole, tentativo di emancipazione. L’alba – dal titolo originale, Úsvit, letteralmente “sorgere del sole” in lingua ceca – di uno, nessuno, centomila Saša, pionieri nella loro epoca di una normalità considerata tabù, autori di una nuova libertà per cui siamo ancora, tutt’oggi, debitori.

Eliška Křenková in Usvit -We Have Never Been Modern di Matej Chlupacek

Eliška Křenková in Usvit -We Have Never Been Modern di Matej Chlupacek

Il titolo originale del film, Úsvit, in ceco significa “alba”. È una metafora della sinossi e dell’evoluzione dei personaggi?

È vero, Úsvit in ceco significa alba, ma è anche il nome della città in cui si svolge il film. Abbiamo deciso di chiamarlo così anche perché rappresenta una vera e propria alba per le idee dei personaggi. Tradurre il tutto in inglese non aveva senso però, perché “alba” non avrebbe reso il senso della trama.

Attualmente nel circuito dei festival i titoli più lunghi in inglese funzionano abbastanza bene, e volevamo qualcosa che descrivesse il film con più parole. E  Miro Šifra, lo sceneggiatore, ha avuto l’idea di chiamarlo come il libro We Have Never Been Modern di Bruno Latour, uno studio di antropologia sullo scontro tra modernità e natura.

E tratta questo tema con gran rispetto, collocandolo in un’epoca in cui non era considerato così fondamentale. O perlomeno non da tutti.

Il personaggio di Saša è stato fondamentale, perché lo stesso Richard Langdon, che lo interpreta, è un ragazzo transgender. Dal momento in cui è entrato in gioco ha letto la sceneggiatura, che era ancora agli albori, ed ha dato molti suggerimenti per fare in modo che questa parte fosse raccontata con quanto più tatto e delicatezza possibile.

Come ci si prepara a raccontare un tema così importante nel modo giusto?

Il libro al quale ci siamo ispirati è stato scritto negli anni Venti, il che ha costituito l’idea iniziale per fare questo film. Quando Miro, lo sceneggiatore, ha letto la storia di questo ragazzo ne è rimasto colpito, perciò ha creato questo cocktail di cose, ambientato nel 1937, circa dieci anni dopo l’uscita del saggio.

Questa è stata l’idea iniziale e poi, nel racconto dell’intersessualità, il merito è stato soprattutto di Richard nel recitare la sua parte. Tante altre persone della comunità transgender hanno commentato la sceneggiatura, aiutandoci a modellare la storia in modo che trattasse tutto col giusto rispetto. Il nostro team è composto perlopiù da persone cisgender ed eterosessuali: non ci sentivamo in grado di comprendere a pieno il senso del racconto, e volevamo avere attorno a noi persone che ne capissero un po’ di più.

Avete modificato qualche parte della sceneggiatura alla luce di questi consigli?

C’è la scena finale in cui Saša decide di affrontare Helena per dirle che si sente un uomo: vuole tornare al suo paese, alla sua famiglia, perché si sente più capito lì rispetto che nella grande città. È una scena che è stata riscritta solo grazie ai commenti di Richard.

All’inizio Helena era un personaggio più insistente, rigido nella sua posizione. Grazie alla prospettiva dataci dalla comunità l’abbiamo resa più comprensiva rispetto alla natura di Saša, cercando di guidare soprattutto un pubblico più conservatore attraverso la sua visione e il suo operato. Alla fine dei conti, chi giunge ad una soluzione personale è più Helena che Saša stesso. Bisognava affrontare il tema in questa prospettiva. E l’apporto della comunità LGBTQIA+ è stato fondamentale.

Una scena di Usvit -We Have Never Been Modern di Matej Chlupacek

Una scena di Usvit -We Have Never Been Modern di Matej Chlupacek

Helena ad un certo punto dice: “Dovremo aspettare 5-10 anni e poi l’intersessualità non sarà più un tabù”. Di anni ne sono passati novanta e un tabù lo è ancora, così come tante tematiche legate al corpo e alla sessualità.

Quella per me è una frase fondamentale. È stata studiata proprio per far vedere che i personaggi in quel momento credevano davvero che alcune cose sarebbero successe di lì a poco. L’antagonista della storia, a un certo punto dice che Hitler è soltanto una persona che fa la voce grossa, ma non è lui il vero problema. Ovviamente i personaggi sono un po’ distanti da quella che lo spettatore, a posteriori, conosce come storia ufficiale. Ma le cose cambiano molto velocemente. Anche chi è dalla parte giusta, molte volte si trova davanti a una realtà che muta nel modo sbagliato davanti ai propri occhi.

Non è successo soltanto negli anni Trenta, ma è in corso attualmente anche in Slovacchia (nazione co-produttrice del film, ndr). C’è stato un cambiamento trasversale durante la produzione, nell’arco di un anno circa. È bastato che il partito sbagliato vincesse le elezioni per arrivare ad avere un governo fascista e conservatore che sta facendo passi indietro su tantissime tematiche.

Questa svolta estremista ha costituito una difficoltà per la realizzazione finale del film?

Siamo stati molto fortunati, perché l’anteprima ufficiale di We Have Never Been Modern è stata due giorni prima del risultato delle elezioni. Siamo riusciti a completare il progetto appena prima che prendesse il via questo cambiamento così significativo.

E crede che la sorte del film sarebbe stata diversa se avesse deciso di realizzarlo oggi?

Sicuramente. Se adesso ci fosse un film del genere, se un’idea simile venisse presentata alla Slovacchia, non ci sarebbe possibilità di ricevere supporto o finanziamenti dalla televisione nazionale o dai programmi del governo.

Per fortuna, invece, il film è stato distribuito in vari paesi, arriva per la seconda volta in Italia, dove è già stato premiato al Lovers Film Festival di Torino. Immaginava un apprezzamento tale da andare ben oltre il paese di provenienza?

Non ci aspettavamo di avere successo, ma di certo abbiamo tentato di fare un film nel modo più internazionale possibile. Per noi questa non è solo una storia sulla Repubblica Ceca e sulla Slovacchia, è una storia che può essere guardata ovunque nel mondo, che parla esclusivamente di diritti e della natura umana: tematiche nelle quali in tanti, ovunque, si possono riconoscere. Ho sperato molto sin da subito che il film venisse rilasciato a livello internazionale, ed abbiamo lavorato anche a Los Angeles proprio per questo: per renderlo un’opera extra-nazionale.

Cosa vorrebbe suscitare al pubblico con la visione?

Ho sempre detto che vorrei che questo film fosse fruibile a mia nonna. Che spiegasse la tematica in modo semplice anche a persone che non si sono mai interessate a questo. Sono molto contento di vedere che in Europa anche le persone che hanno più di sessant’anni si stanno avvicinando al film e stanno partecipando ai Q&A che avvengono dopo le proiezioni.

Ritornando al titolo del film, secondo lei davvero non siamo mai stati moderni?

Sicuramente ora no, non lo siamo.

E ci stiamo muovendo nella giusta direzione per diventarlo?

Non penso che stiamo andando in una buona direzione. È il motivo per cui abbiamo scelto gli anni Trenta come ambientazione per il film. Tutti credevano che il mondo sarebbe diventato migliore, invece erano proprio all’alba di quella che poi è stata la catastrofe della seconda guerra mondiale. Tutto ciò che avevano creato è stato distrutto, ed è tutto ancora peggio se guardiamo il mondo di oggi. Con i governi estremisti che sono al potere, con Trump che potrebbe diventare di nuovo presidente dell’America, l’Ungheria nella sua direzione politica estremista, con le guerre tra Russia e Ucraina e tra Israele e Palestina.

In fondo, ci troviamo esattamente nella stessa situazione che c’era nel 1937: abbiamo dei grandi progetti ma non siamo ancora abbastanza moderni, e probabilmente il futuro che arriverà impedirà anche a tanti progetti di essere realizzati. Nulla è roseo. Ma finché ci saranno persone come Helena e Saša, c’è ancora una speranza che le cose possano andare bene.