Gael García Bernal: “Il cinema ha perso molto del suo potere. Colpa delle formule e dei soldi”

"Non mi piacciono i messaggi e le risposte nei film. O forse mi piacciono le risposte che aprono a nuove domande", racconta l'attore parlando di Another End, l'opera seconda di Piero Messina presentata alla Berlinale e ora in sala. E che sul cinema sudamericano afferma: "Ci sono ancora migliaia di paesaggi che non abbiamo filmato. E molti volti che ancora non abbiamo mai visto". L'intervista di THR Roma

“Ah, si! Un cafesito. Devo svegliarmi”. Gael García Bernal, vestito nelle tonalità del grigio e occhiali da vista dalla montatura leggera, quando parla mischia italiano, spagnolo e inglese. Atterrato da Città del Messico, THR Roma lo incontra in un albergo che taglia in due via Veneto. L’attore è in Italia per accompagnare Piero Messina in un tour che toccherà varie città per presentare al pubblico in sala Another End, film prodotto da Indigo Film con Rai Cinema che, dopo il passaggio a Berlino 74, arriva in sala con 01 Distribution.

Una pellicola ambientata in un futuro prossimo in cui Bernal interpreta Sal, un uomo che ha perso l’amore della sua vita in un incidente automobilistico. Quando sua sorella gli propone di affidarsi ad una nuova tecnologia che promette di alleviare il dolore del distacco riportando in vita, per breve tempo, la coscienza di chi se n’è andato nel corpo di un’altra persona, Sal si convince di poter ricomporre ciò che era andato in frantumi.

Gael García Bernal in una scena di Another End

Gael García Bernal in una scena di Another End. Foto di Luisa Carcavale/Indigo Film

Cesare Pavese diceva che per superare un dolore bisogna attraversarlo. Crede che sia quello che sta facendo Sal o usa la tecnologia di Another End per rimandare il faccia a faccia definitivo con il lutto?

È strano, perché in quei momenti in cui c’è lo shock e il trauma per una perdita enorme, ci sono sempre delle parole che diventano come una sorta di rassegnazione completa di tutto. C’è una dimissione. E ci sono termini – delle specie di luoghi comuni – che non hanno assolutamente alcun significato. “Spero che passi in fretta”. Ovviamente non lo supererai. È sempre qualcosa che rimane per tutta la vita, ma diventa qualcos’altro.

In certi casi può diventare anche qualcosa di bello. A volte penso che Sal sia in un punto in cui qualsiasi cosa gli faccia “superare la notte” vada bene per avere una certa comprensione di ciò che è successo. Ma alla fine, qualsiasi cosa facciamo in quel momento, è importante lasciarsi andare ad una non completa comprensione. Anche se poi ci sono persone che vendono pillole dimagranti o dicono: “Ho la soluzione per non far piangere i bambini”. No, nessuno ce l’ha.

Ha paura di come la tecnologia possa cambiare il nostro modo di sentire e vivere le emozioni?

Sì. E credo che lo stiamo già vivendo con i messaggi istantanei e i social media. Ci stanno fortemente influenzando emotivamente. A partire da ciò che TikTok o Instagram possono fare. Ma c’è anche un altro estremo, che è il problema del tipo: “Non risponde al telefono. Cosa sta succedendo?”. È uno strano momento quello in cui viviamo, perché questi elementi diventano molto importanti nelle nostre vite. Non mi spaventa la parola “tecnologia”. Ma ovviamente, ogni volta che ne parlo e affronto qualcosa di simile, ne divento sempre più consapevole e dico: “Sì, è così”. Ma qual è la soluzione? Sbarazzarsi del telefono? Forse. Ma in quel momento diventeresti davvero un outcast.

Another End è anche un film sulla memoria. Pensa che sia l’unico modo che abbiamo per far rivivere una persona che amiamo?

Lei scrive e io sono un attore. Nel mio lavoro ho la possibilità di rappresentare archetipi o di giocarci. E a volte le cose vengono bene, altre molto male. Queste due cose che facciamo – scrivere e recitare – sono una specie di piccole esplosioni di trascendenza, di desiderio, di avere qualcosa di più di un momento o, in un certo senso, di vivere più vite all’interno di una. Allo stesso tempo, questo è il modo in cui costruiamo la nostra mitologia. È il nostro pantheon.

Ricordare è sicuramente uno dei meccanismi, ma non è la conseguenza. Serve per trovare altre cose e forse ricordi che non esistevano o esperienze che possono essere raccontate solo dall’olfatto, non dal razionale. Tutti noi abbiamo in mente l’odore della casa di nostra nonna. Siamo come i pipistrelli, siamo pieni di sensori. Penso che la memoria sia più simile alla tristezza. Ogni volta che per qualche motivo arriva, dalla perdita di qualcuno alla fine di una relazione, è utile ricordare che serve per dimenticare, per lasciar andare, per accettare. Ecco perché non si dovrebbe mai dire: “Non essere triste”. A meno che non si tratti di bambini. A volte con i bambini bisogna farlo (ride, ndr).

Gael García Bernal e Renate Reinsve. Foto di Luisa Carcavale/Indigo Film

Gael García Bernal e Renate Reinsve. Foto di Luisa Carcavale/Indigo Film

Il film non ha risposte, ma solo domande. Crede che il ruolo del cinema debba essere questo? Lasciare il pubblico libero di pensare e, magari, di cambiare idea

Sì, decisamente. La parola “messaggio” sembra sempre una sorta di favola morale didattica. E non è quello che mi piace fare. Certo, ci sono cose che sono fatte per questo. Ma credo che oggi la rappresentazione sia diventata ancora più libera. Non è un indottrinamento. Non mi piacciono i messaggi e le risposte nei film. O forse mi piacciono le risposte che aprono a nuove domande. E le ipotesi che dicono: “Cosa accadrebbe se?”.

Normalmente quando si perde qualcuno nella cultura occidentale si tende a dire che il corpo non è importante. Ma ha molte ramificazioni anche con la natura. E, invece, è come se ne fossimo separati. Credo che siamo una specie di persona olistica che coinvolge memoria e mente. Ma anche il corpo. E Piero nel film lancia una controversia interessante. “Il corpo non è importante?”. Credo che Another End in questo senso dia una risposta che apre ad un’altra domanda.

Nella sua carriera si è sempre schierato opponendosi ai muri, alla guerra, ai discorsi carichi di odio. Pensa che il suo lavoro di attore sia anche una vocazione politica? E cosa pensa dei colleghi che non si espongono perché hanno paura di ripercussioni sul loro lavoro?

Ci sono contesti e scenari diversi. Crescendo in Messico ho avuto l’opportunità di poter dire ciò che sentivo e di essere indipendente. Per i miei genitori non è stato così facile, ma lo è stato per me. La mia generazione è stata una delle prime a dire apertamente: “Ok, puoi fare e dire quello che vuoi”. Quando crescevo in Messico c’era lo Zapatismo (movimento nato con l’obiettivo di affermare i diritti delle popolazioni native messicane, ndr) e sono stato molto coinvolto. Era un momento molto politicizzato.

Ma ovviamente ci sono luoghi in cui le cose sono più complicate. Capisco perfettamente il perché. In Iran, per esempio, non possono parlare apertamente di certe cose. Lo capisco e lo rispetto completamente. Ma se qualcuno non dice qualcosa perché vuole ricevere un premio, beh lo trovo molto stupido. Posso essere molto critico al riguardo. E purtroppo succede spesso.

La vedremo nei panni di Zorro?

No, è solo una voce che gira su Internet. Ma non è reale.

Eppure come lui si è impegnato nella difesa delle popolazioni indigene, anche attraverso il cinema.

Io e il mio amico e collega Diego Luna (i due anni una casa di produzione e distribuzione, Canana Films, insieme a Pablo Cruz, ndr), abbiamo una sorta di bisogno simile di aiutare e di smuovere un po’ le acque. A volte mi sono domandato da dove derivi questa cosa. Ha a che fare con una sorta di comprensione molto elementare del desiderio di fare. Voler davvero che ci sia un luogo di giustizia sociale e per il bene comune. Ma credo anche che nasca da un bisogno. Abbiamo la necessità di far parte di una comunità, di essere invitati alla festa (ride, ndr).

Sappiamo che non c’è niente di più gratificante che aiutare qualcuno. È da lì che arriva la gratificazione stessa ed è come se all’improvviso ti appartenesse. Qualcosa di cui siamo sempre alla ricerca. Ho vissuto in molti posti diversi fin da quando ero molto giovane. Ho sempre voluto appartenere. Ogni volta che sentivo di non farlo, non mi sentivo molto bene. Ma la cosa positiva è che quello era anche un termostato per la creatività che mi ha portato a fare altre cose.

Gael García Bernal e Bérénice Bejo in Another End

Gael García Bernal e Bérénice Bejo in Another End. Foto di Luisa Carcavale/Indigo Film

È diventato popolare in Europa e negli Stati Uniti, ma non ha mai lasciato il Messico lavorando con registi come Alejandro González Iñárritu, Alfonso Cuarón e Pablo Larraín. Qual è la forza del cinema sudamericano?

Ci siamo trovati in una situazione molto buona, nata nel momento giusto, in cui non c’erano aspettative nei confronti del nostro cinema. Quando ho partecipato ad Amores perros avevo 19 anni. Quell’anno in Messico sono stati fatti solo sei film. Era un luogo di cui non importava a nessuno. Se quei film sarebbero stati visti o meno, nessuno non lo sapeva. Era quella che viene chiamata una “pagina bianca”. Ma non c’era nemmeno la pagina. Non c’era niente (ride, ndr). Non sapevamo cosa aspettarci. E fortunatamente quello che avevamo messo istintivamente nei film ha funzionato molto bene e ha avuto ripercussioni interessanti. Tutto d’un tratto si è trasformato in una sorta di grammatica un po’ più formale. “Ok, abbiamo qualcosa da raccontare. Anzi. Abbiamo molto da raccontare”.

Crede che continuerà a crescere?

Ci sono ancora migliaia di paesaggi che non abbiamo filmato. E molti volti che non abbiamo mai visto. È una bella sensazione. E si sposa con tutto ciò di cui abbiamo parlato, come la memoria e il tentativo di essere trascendenti, di sentire che si sta facendo qualcosa di meglio per se stessi, per la propria famiglia, per i propri amici, per persone che nemmeno si conoscono. In un luogo in cui all’improvviso si dice: “Ok, non faremo i film nel modo in cui lo status quo dice che i film dovrebbero essere fatti”. E questo apre di per sé nuove possibilità.  Abbiamo la responsabilità di dire e fare ciò che vogliamo. Anche se ora, con le piattaforme, stanno cercando di passare attraverso la formula, con cose molto conservatrici. Speriamo di non essere mai così strutturati da funzionare in questo modo. È stato dimostrato: il cinema ha perso molto del suo potere non solo a causa dei nuovi media, ma anche a causa dell’uso di una formula. La responsabilità è anche nostra. Ma la soprattutto di chi mette i soldi.

Lavora anche a Hollywood. C’è qualcosa che non le piace dell’industria?

Non lavoro molto negli Stati Uniti, ma ogni volta che lo faccio mi sembra che la posta in gioco sia molto alta perché ci sono molti soldi in ballo. Tanti. E questo mette molta pressione. Non si tratta di una critica, ma cambia davvero tutto. È come una banca che ha molti soldi. E non vorresti mai viverci accanto perché potrebbe essere rapinata. Poi però ci sono film come Dune che è impossibile realizzare altrove.

Ha interpretato alcune figure storiche nella sua carriera. Ma c’è qualcuno che le piace o che non le piace affatto di cui vorrebbe vestire i panni?

Sì, ce ne sono molti. Ma non dirò i nomi perché va contro gli dei del cinema, devo stare molto attento (ride, ndr). Però c’è stato un matematico, Eratostene, che ha calcolato la circonferenza della terra facendo un esperimento da Alessandria al Cairo misurando le ombre. Sbagliò di poco solo perché non tenne conto del fatto che la terra non è del tutto rotonda. Il suo errore è stato di qualche centinaio di chilometri o qualcosa del genere. Mi piacerebbe interpretare il tizio che va da lui e gli dice: “Hijo de puta. Avevi ragione. Ce l’hai fatta!”.