Stefano Leoni, supervisore dei vfx di Adagio: “L’italia è pronta ad aprirsi al mercato globale. Merito anche di registi come Stefano Sollima”

Insieme al suo team della EDI Effetti Digitali Italiani è candidato ai David di Donatello 2024, premio già conquistato con L'incredibile storia dell'isola delle rose e Freaks Out. Un percorso che ha incrociato la sua strada con il Thor della Marvel e la Roma anacronistica di Ripley. "Ma il migliore per me è Wes Anderson". L'intervista a THR Roma

Roma brucia sullo sfondo di Adagio. Si accende e si spegne a seconda dei cali di corrente. È il caldo, è l’afa, è una città che ti stringe in una morsa. La stessa che attanaglia il protagonista Manuel (Gianmarco Franchini), ricattato, costretto a scappare, in cerca di aiuto mentre tutto attorno a lui si accende come un incendio. Location e paesaggi restituiscono il fuoco della storia scritta e diretta da Stefano Sollima, che dopo la serie ZeroZeroZero torna a collaborare con il supervisore dei vfx Stefano Leoni e il team della EDI Effetti Digitali Italiani per dare al film il giusto palco su cui far spostare i suoi personaggi.

“Sollima è puntiglioso. Vuole sapere cosa si sta facendo e perché. Per questo il primo step è stato effettuare dei test col direttore della fotografia, Paolo Carnera. Abbiamo studiato come la luce cambia dal crepuscolo all’alba e poi di nuovo alla notte, per lavorare al meglio sui chiari/scuro. Questa è una particolarità dei film di Stefano: anche quando si è avvolti completamente dall’oscurità, si vede sempre. Per questo trovo splendida la scena della sparatoria nella casa del personaggio Polniuman, interpretato da Valerio Mastandrea”.

Contrasti che l’Accademia dei David di Donatello non ha potuto certo ignorare, candidando Leoni e la crew di Adagio per i migliori effetti visivi ai premi 2024, dopo aver già conquistato il riconoscimento con L’incredibile storia dell’isola delle rose nel 2021 e Freaks Out nel 2022.

Ma il vero tocco degli effetti visivi è la loro invisibilità. L’esserci, ma non farsi vedere. È corretto?

Sì, soprattutto è la cosa più divertente. Non potete immaginare quante ce ne hanno dette per Mixed By Erry di Sydney Sibilia. ‘Sì, vabbè, ora ci sono degli effetti visivi, e che avrete mai fatto’. Per la gente è assurdo pensare che un film simile abbia bisogno dell’apporto dei vfx, ma è così. Il meglio, per me, è quando si raggiunge un mix ideale tra visibile e invisibile, come per Freaks Out, in cui i superpoteri coesistono all’interno della normalità.

Più divertente del lavorare con dei supereroi?

È che lì si rischia di cadere nell’abbuffata, con l’effetto visivo che diventa quasi stucchevole. Soprattutto se si pensa che possa venire utilizzato come sostituto della storia stessa. Un racconto povero con grande lavoro di vfx, rimane comunque un racconto povero. Oppure, pur con una narrazione solida, se diventa eccessivo rimane incastrato tra il didascalico e il velleitario. Perciò, a mio avviso, l’effetto misto rimane il migliore, quando il pubblico se ne accorge, ma non nota necessariamente uno stacco. Ad esempio per Adagio abbiamo avuto l’occasione di chiudere e spegnere molte delle strade per simulare l’effetto del blackout. Altre, ovviamente, hanno avuto bisogno dell’intervento digitale, ma il risultato finale è realistico e omogeneo.

Di certo un vero incendio avrebbe allertato i cittadini della capitale.

E con quanta precisione lo ha trattato Sollima. Fin dal principio ha sempre voluto che il fuoco fosse una presenza scenica costante, ma non desse mai l’impressione di un disaster movie. Abbiamo lavorato molto insieme affinché l’effetto fosse integrato alla perfezione. Stefano sa come riuscire a parlare a tutti, anche a un pubblico internazionale.

Come gli uccelli che bruciano e cadono dal cielo. Un po’ le vostre rane di Magnolia?

Che tra l’altro Sollima continuava a voler aggiungere, sempre di più. Direi di sì, comunque. È una sequenza potente, ben costruita, filologica e dall’impatto poetico. Sembrano inquadrature semplici, ma se si guarda bene non ci sono stacchi e il montaggio ha restituito il taglio coerente e emozionante che il regista aveva in mente. È stato toccante vedere la scena completa di colonna sonora alla première della Mostra di Venezia.

Ma quand’è che comincia il lavoro del team degli effetti visivi durante la lavorazione di un film?

Subito. Ti metti alla sceneggiatura col regista per indicare dove e come potrebbero essere integrati gli effetti, che siano delle esplosioni o degli interventi banali. Aiuti poi il direttore della fotografia, con cui si cerca di rendere l’immagine più fluida e coerente possibile, soprattutto lavorando sulla luce. Poi anche con gli scenografi, per vedere come un luogo è e come diventerà sullo schermo. Siamo coloro che confezionano il prodotto finale e aiutiamo a esaltare ciò a cui hanno lavorato gli altri, dal trucco ai costumi. All’inizio c’era un certo timore da parte delle maestranze, potevano pensare che fossimo arrivati per rubare loro il mestiere. Ma la verità è che lavoriamo fianco a fianco affinché venga fuori il risultato migliore per tutti. Ormai siamo fondamentali.

C’è stato un momento in cui questo essere fondamentali è diventato evidente?

Dall’uscita de Il trono di spade. Ha settato una qualità che è diventata la norma per poter essere considerati di valore nell’ambito seriale e cinematografico, e trovo sia giusto così.

Ad esempio in Adagio vediamo che anche gli schizzi di sangue sono lavorati con i vfx, cosa di cui immagino non tutti siano consapevoli quando guardano una sparatoria o altro.

L’effetto del sangue esiste da sempre e, inizialmente, era gestito solamente dal reparto del trucco. Ma grazie agli effetti digitali i registi hanno cominciato ad avere l’opportunità di non staccare la scena mentre giravano. Prima si vedeva lo sparo, poi si cambiava inquadratura e si vedeva la vittima. Adesso si può girare tutto in continuità e il nostro apporto sta nell’eliminare imperfezioni o oggetti che svelerebbero l’effetto posticcio del sangue. Contribuiamo a tramutare in realistico un avvenimento finzionale. E, a volte, anche a rendere i sanguinanti artistici.

Ma come nasce il sogno di lavorare con i vfx?

Come quello di tutti, partendo dal voler fare il regista. O, almeno, così è stato per me. Sono un amante del cinema dalla prima ora e ho sempre strizzato l’occhio alla computer grafica. Nel campo artistico cinema e videogiochi, soprattutto oggi, sono andati spesso in parallelo, benché il predominio sui caratteri digitali l’hanno sempre avuto gli Stati Uniti e il Giappone, almeno fino alla fine degli anni novanta, che è quando ho cominciato a rendere la mia passione un lavoro. Da un corso per filmmaker mi sono poi avvicinato alla computer animation e, alla fine, sono finito sulla scia della CGI.

Un percorso che è cresciuto anche con la graduale importanza che hanno assunto sempre di più gli effetti visivi nell’audiovisivo, soprattutto in Italia.

L’avvento delle piattaforme ha influito, l’Italia ha cominciato a diventare un porto sicuro per committenti che sapevano di poterci affidare prodotti che sarebbero stati distribuiti a livello mondiale. Questo ha richiesto alla categoria di adattarsi in fretta, ma l’occhio spesso autoriale che come nazione ci portiamo anche nel lavoro digitale, ha dato ai progetti il quid in più per essere apprezzati sia in fase di lavorazione, che a prodotto finito. Negli Usa la visione è più logistica, organizzativa. Sono una macchina da guerra in questo. Ma il nostro mettere davanti la visione estetica e poi l’elemento in vfx ha affascinato e continua a conquistare sia produzioni e professionisti italiani che di altre nazioni.

Tant’è che sono arrivati anche i grandi Studios. Da cinecomic Marvel come Thor: Love and Thunder o DC come Black Adam, fino a serie su Netflix, se pensiamo a La legge di Lidia Poët e a Ripley. Come succede?

Sei appetibile in quanto struttura media di seconda fascia, quindi qualitativamente valida e appetibile e in cui non si rischia una dispersione economica e comunicativa. Gli Studios sono realtà che hanno bisogno di gente che stia dietro ai loro progetti, che li segui pedissequamente dall’inizio fino alla fine, mentre aziende più grandi si occupano dei super blockbuster come Avengers o Avatar. E dopo i primi successi, è normale che si crei una fiducia tale da far aumentare le richieste, ed è ovvio che, a sua volta, debba alzarsi anche lo standard richiesto. Così si arriva a curare supereroi iconici come Thor, ma anche a sistemare a livello anacronistico un contenuto come Ripley, ricostruendo una Roma adattata e incontaminata dalla modernità.

È entusiasmante vedere questa evoluzione. Prima, probabilmente, esistevano dei talenti, ma pensavano di non avere spazio in Italia, allora cercavano fortuna all’estero. Ora l’industria sta cambiando, invertendo la tendenza. Sente una certa competizione visto il poco spazio che spesso nel nostro Paese viene riservato agli vfx? O è solo un incentivo a fare meglio?

La competizione spinge a migliorarsi, ma non deve essere l’unica cosa su cui puntare. O meglio, non solo. Bisogna instaurare una comunione di intenti. Ci sono progetti per cui, io in primis, mi affiderei a un’azienda di sostegno, perché se il lavoro da fare è ingente è controproducente remarsi contro. L’obiettivo è portare a casa il risultato e far vedere agli Studios che si è in grado di farlo. Ad alzarsi, dunque, è stata di certo la qualità, ma anche il senso di collaborazione. Mi viene da pensare a un nome come Gabriele Muccino che fin dall’inizio ha avuto ben chiara l’importanza che i vfx potevano avere nel cinema, anche d’autore, mostrando che l’Italia poteva competere col panorama mondiale.

Se prima erano i professionisti italiani ad andare a cercare fortuna all’estero, adesso ce ne sono di stranieri che vogliono lavorare in Italia?

Di europei molti. Ma ad essere tanti sono gli italiani che hanno lavorato per anni fuori e desiderano tornare. All’estero, spesso, l’industria è come una fabbrica in cui si rimane fermi. A livelli altissimi, ma pur sempre fermi. In Italia il potenziale di crescita è esponenziale.

Qual è stato il film che ha segnato la sua carriera?

Ero agli inizi e vidi un film che integrava alla perfezione realtà, o almeno il suo concetto, agli effetti visivi. Era Fight Club e ci trovavamo nel 1999. Stesso anno di Matrix, tra l’altro. Fu pazzesco perché mentre giravano in Australia stavo giusto terminando i miei studi ai Fox Studios. Mi ricordo bene tutto il vociferare attorno a un film che sembrava impossibile da realizzare e di cui però, insieme, non si sapeva nulla. È incredibile pensare che ero proprio lì mentre ideavano la scena del bullet time con Neo che schiva le pallottole con tutte le telecamere posizionate attorno per riprenderlo. Anche se il primo a cambiare la storia degli effetti visivi è stato Steven Spielberg con Jurassic Park, utilizzando la computer grafica in modo fotorealistico.

Invece l’ultimo film i cui vfx l’hanno lasciata a bocca aperta?

The Creator di Gareth Edwards. E Godzilla Minus One, che ha anche vinto gli Oscar. Ma se devo ammetterlo, ho una passione smodata per Wes Anderson. Sfrutta perfettamente l’effetto misto di cui parlavo prima, dove al reale si immette l’apporto digitale. È eccezionale.

Dopo aver vinto con L’incredibile storia dell’isola delle rose e Freaks Out, cosa rappresenta la candidatura ai David di Donatello per Adagio?

Una grande gioia. È la conferma che in Italia il livello è alto e siamo contenti che l’Accademia del cinema italiano riconosca e apprezzi le tante maestranze del settore. Che sia un blockbuster come Black Adam o un film d’autore come Enea, fino all’ultimo lavoro di Gabriele Mainetti, l’obiettivo è continuare a crescere come sta accadendo, facendo in modo che l’audiovisivo italiano possa puntare a un mercato globale.