Il regista Moin Hussain racconta Sky Peals: “Sentirsi alieni nella notte delle strade inglesi”

Presentato a Venezia 80 nella sezione della Settimana della Critica, l'esordio al lungometraggio del regista inglese di origine pakistane è un'opera sulla ricerca della propria identità. L'intervista a THR Roma

Moin Hussain ha origini pakistane, ma non è mai stato nel paese dei suoi nonni. Il padre si è trasferito in Inghilterra quando era bambino, e non c’è mai tornato. Hussain non ha visitato la terra delle sue origini, non parla pakistano e sente di non aver avuto veramente accesso a quel passato che ha ereditato. È sull’identità e su come si forma che riflette il suo primo lungometraggio, Sky Peals, presentato nella sezione della Settimana della Critica durante Venezia80.

Il protagonista è Adam (Faraz Ayub), impegnato ogni notte nel suo lavoro in una stazione dei servizi stradali. Un’esistenza solitaria, priva di qualsiasi rapporto umano, che diventa ancora più isolata quando viene a sapere della morte del padre, di cui aveva perso le tracce. L’esistenza di Adam prenderà una svolta inaspettata quando scoprirà che il genitore credeva di non essere umano, iniziando a cercare indizi su questa sua idea improbabile, e su cosa potrebbe significare se dovesse rivelarsi esatta.

Ha presentato svariati cortometraggi in diversi festival cinematografici. Ora arriva al suo primo lungometraggio. Qual è stata la sfida più grande?

Gestire il tempo. Dallo sviluppo, alle riprese fino alla scrittura. Ma nonostante i piccoli intoppi, è andato tutto a buon fine. La parte più difficile è stata la post-produzione. Perché è vero, sei alla fine del viaggio, ma sei anche allo stremo delle energie. Ed è il momento in cui le domande cominciano ad assalirti. Avrò fatto bene? Avrò fatto male?

Il protagonista, Adam, comincia a dubitare di essere umano. Quanto è più facile, a volte, fingere di essere un alieno invece che affrontare la realtà?

Credo che la questione sia cos’è reale e cosa, invece, non lo è. Mi piacerebbe fingermi un alieno. E piace anche a Adam, perché è ciò che per lui conta in quel preciso momento. Si sente diverso e distante da tutto, è bloccato. L’idea che il film voleva esplorare era che l’identità è qualcosa che cerchiamo e creiamo. Può essere utile nell’aiutarci ad aprire un varco per entrare nel mondo. Ma se cominci a identificarti troppo in una visione distorta alla fine rischi il contrario, ovvero di perderti.

Lei si è mai sentito un alieno?

Sì, penso sia proprio per questo che ho scritto Sky Peals. Ogni personaggio di cui si scrive contiene un pezzo di se stessi. C’è molto di me in Adam, soprattutto nel cercare di muoversi e trovare il proprio posto nel mondo.

Come è avvenuto l’incontro con l’interprete Faraz Ayub?

È stato un casting molto lungo, ma quando ho conosciuto Faraz Ayub mi è stato chiaro da subito che sarebbe stato Adam. Sono rimasto colpito dalla sua autenticità. È naturale nella parte di Adam, che non trovo per niente facile da interpretare. Doveva lavorare di introspezione, mostrarsi molto chiuso, distante emotivamente da tutto e da tutti. Cosa che Faraz, poi, non è affatto.

È come se il film fosse ambientato in una notte perpetua. Come mai questo desiderio di oscurità?

La prima idea che ho avuto in assoluto era su un film di fantascienza ambientato in un’area di servizio sui lati dell’autostrada, quei luoghi che di notte risaltano perché sono luminosi e isolati, avvolti dal buio. Ho cercato di trasferire questa idea nel racconto. Il protagonista lavora di notte, non ha familiarità con le persone e riduce al minimo le sue interazioni. Lui vive la notte, per questo è lì che lo incontriamo. Per l’atmosfera mi sono affidato al lavoro del direttore della fotografia Nick Cook, un grande amico. Abbiamo girato in 35 mm, è stata una sfida, ma molto stimolante.

Era anche per accentuare l’aurea sci-fi?

Anche, volevo che all’ambientazione terrena si integrassero in maniera realistica i momenti fantastici. Sky Peals è un film più umano che sci-fi, un dramma umano a cui non volevo si aggiungessero elementi artificiali che risultassero forzati. È la storia di un uomo che deve affrontare la morte del padre e, affrontando questa perdita, capire chi è.

Trova che le parentesi più dolorose della nostra vita possano contribuire a farci capire chi siamo?

Sì, soprattutto per comprendere cosa abbiamo dentro. Nel corso dell’esistenza affrontiamo periodi in cui ci interroghiamo su chi siamo o chi vorremmo essere. Quando muore un membro della propria famiglia è come se si stesse chiudendo una porta su una parte della tua eredità e della tua storia personale. Questo innesca qualcosa. C’è molto del mio trascorso nella stesura di Sky Peals. Quando morì mio nonno, svariati anni fa, ho perso il mio unico, vero legame con il Pakistan, terra delle mie radici. Mio padre si è spostato in Inghilterra da bambino e non c’è mai tornato. Per questo c’è stata sempre una parte di me un po’ aliena. Un passato a cui sento di non aver mai avuto accesso. E questa mia piccola crisi di identità è stata il primo seme per Sky Peals.