Michela Giraud: “Un film come Flaminia mi ha permesso di affrontare le cose da cui cercavo di proteggermi”

La stand up comedian romana debutta dietro la macchina da presa con una storia da lei anche scritta e interpretata. Ispirato al forte legame con la sorella, con il volto di Rita Abela nel film, è un racconto sulle scelte di vita, oltre la commedia. "Di lei mi disarma vedere come non abbia paura di esprimere le proprie fragilità". L’intervista di THR Roma

Luci, set, azione, cinque minuti a disposizione con Michela Giraud e Rita Abela. Il tempo è prezioso nei serratissimi slot destinati alla stampa, ma prima dell’ultima domanda una pausa quasi impercettibile diventa necessaria. Si volta verso Abela, Giraud, e le stringe la mano con gli occhi lucidi. Un gesto che arriva alla fine della lunga e intensa giornata di presentazione del suo esordio alla regia, ma che non è affatto automatico, istintivo forse. Nello sguardo che le due co-protagoniste si scambiano è già chiaro che Flaminia è qualcosa di più di una commedia, qualcosa che nemmeno le risate riescono a esorcizzare del tutto.

Dentro c’è infatti un’emozione, a tratti un dolore, reale, quello di un profondo rapporto tra sorelle, una delle quali nello spettro autistico. Liberamente ispirato al rapporto con la sorella Cristina (interpretata da Abela), di cui Michela Giraud ha già parlato in passato anche nei suoi spettacoli di stand up comedy, questo esordio dietro la macchina da presa è senza dubbio una storia personale, ma “non un documentario”, specifica la regista in conferenza stampa. È una rielaborazione, senza troppi filtri, in cui l’armatura che la commedia permette spesso di indossare, come corazza, scopre il fianco a un’inaspettata vulnerabilità.

Michela Giraud, la sua Flaminia De Angelis non è un personaggio del tutto autobiografico. Qual è il limite che si è posta fra sé e il personaggio?

Mi sono data come limite il fatto di pensare sempre allo spettatore. Per quanto possa essere “megalomane”, dato che l’ho scritto, diretto e interpretato, ho pensato sempre allo spettatore. In Flaminia ci sono tante mie esperienze, tante mie emozioni, ma le ho mutuate e messe al servizio della sceneggiatura e del film. Sicuramente ci sono degli aspetti comuni, c’è la grande voglia di parlare di un tema che è il tema della diversità, della disabilità. Ma anche la voglia di far scaturire nello spettatore una riflessione che è stata anche la mia per lungo tempo, quella di chiedersi sempre: “Sto vivendo a vita che voglio vivere? Sto frequentando le amiche che voglio frequentare? Sto facendo il lavoro che voglio?”. Avevo tante domande e tante cose, che mi sono successe, da raccontare. Per farlo però è come quando racconti una storia al bar, la colori. Non è sempre tutto vero. Ho fatto un po’ la stessa cosa, che poi è quello che faccio sempre nella stand up, creare delle immagini cercare di far ridere, oltre che emozionare. In Flaminia ho inventato una storia che avesse dei temi a me cari, che mi interessava comunicare avendo la grande opportunità del cinema come megafono.

Rita Abela, ha detto che la sua Ludovica è un personaggio disarmante perché è disarmato. In cosa l’ha fatta sentire disarmata e cosa le ha insegnato?

Di questo personaggio mi disarma vedere come lei non abbia paura di esprimere le proprie fragilità. Non che di esse, magari, non abbia paura o che non abbia paura dei giudizi e delle opinioni delle persone. Ludovica però te lo dice. Cosa che noi invece, pieni di sovrastrutture, non faremmo. Lei dice esattamente tutto quello che sta pensando e questa spontaneità, questa sincerità che nei confronti dell’altro da sé, in verità poi si traduce in una sincerità e autenticità che ha dentro, nei confronti di se stessa. Sento che è questo è il diamantino nel cuore che mi ha lasciato questo personaggio. A parte poi, naturalmente, tutto un discorsoumano di relazioni, di scambio che è stato bellissimo e che certamente non dimenticherò.

Rita Abela e Michela Giraud in una scena di Flaminia

Rita Abela e Michela Giraud in una scena di Flaminia. Courtesy of Eagle Orginal Content

C’è una scena in particolare che cambia proprio il ritmo al film, quasi un interruttore. C’è stato anche nella vostra esperienza un “interruttore”, un momento rivelatore che vi ha aiutate a entrare in questo nuovo passo della storia?

M.G. – No. Nel senso che noi avevamo un po’ l’incubo di quel momento lì. Io in particolare sapevo che avrei dovuto affrontare quella scena. E sono rimasta molto tesa e concentrata finché non è arrivato il momento. Diversamente dalla vita vera, però, in cui spesso mi sono anche un po’ riparata da alcune cose, rifiutandomi di affrontarle, la cosa bella del film è che entrambe sapevamo che quella scena sarebbe arrivata. Ci siamo sedute, abbiamo parlato, l’abbiamo provata e abbiamo organizzato tutto insieme alla troupe. L’interruttore però c’è stato quando abbiamo iniziato a girare il film, perché noi, fin dal primo momento eravamo sempre Flaminia e Ludovica sul set. Abbiamo mantenuto questa iperconcentrazione, per me è faticosissima, che ci ha permesso di fare anche queste scene.

R.A. – Sì, devo dire che ci sono state delle cose, dei momenti di rivelazione – che poi credo appartengano alla vita di ognuno – che determinano un prima, un durante e un dopo un determinato evento. Nel mio caso, sicuramente è servito fare riferimento ad alcune mancanze. Senza spoilerare troppo del film, la paura del disincanto e della disillusione di Ludovica nei momenti più difficili e il suo essere completamente sperduta rispetto ad alcune cose che le accadono, mi ha riportato anche a delle cose che conosco e che ho vissuto. Sicuramente è stato un buon bagaglio umano, un buon materiale di pensiero che mi ha fatto compagnia, nei momenti del film che sono stati emotivamente più intensi.