Il giovane Pietro Castellitto e la ri-generazione di Enea: “La morte? È un po’ come Babbo Natale”

"Quando sei bambino ti illudi che esista, come che vivrai per sempre. Poi ti rendi conto che non è vera né una cosa, né l'altra", spiega il regista e sceneggiatore, alla sua opera seconda, che qui dubita di essere un autore generazionale. Nel cast Giorgio Quarzo Guarascio, che ha studiato I predatori per prepararsi e adesso si emoziona quando ascolta Renato Zero alla radio. La doppia intervista con THR Roma

Enea ha un nome mitico e una famiglia normalissima. Normalissima, per la realtà della bolla borghese. Ha sempre le cuffiette alle orecchie, un amico che fa il pilota e una ragazza con cui potrebbe finalmente sistemarsi, che quando si è vecchi, come gli insegna il criminale Giordano (Adamo Dionisi) c’è solo una cosa che conta: l’amore. Enea, che dà lezioni di tennis e ha un ristorante di sushi (meglio che il servizio di igiene non controlli), si mette anche a spacciare cocaina, per un gangster movie senza gangster, ma pieno dei dubbi e delle incertezze di una generazione.

Anche se Pietro Castellitto, suo regista e sceneggiatore, di questo suo essere un “autore generazionale” mica è tanto sicuro. Sa solo che voleva che Giorgio Quarzo Guarascio cantasse nel film in versione storpiata Spiagge di Renato Zero e che Jane Campion si è messa a parlare con lui per mezz’ora di quanto fosse bella la sua opera seconda. Enea arriva in sala l’11 gennaio, dopo essere stato presentato in anteprima in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Una pellicola anti-cinismo e anti-social in cui se c’è l’amore è inevitabile che ci sia anche la morte.

In un’intervista suo padre Sergio ha detto che con Enea è come se chiudesse un cerchio partito con I predatori, proseguito col libro Gli iperborei, fino al titolo in concorso a Venezia. Vede anche lei una sorta di “trilogia” della crescita? Un passaggio da ragazzo a uomo?

Pietro Castellitto: Posso dire che questo mestiere lo impari sbagliando. Lo impari facendolo, e sbagliando. Quindi, mentre giravo I predatori, ho iniziato a capire cosa mi piaceva e cosa non mi piaceva, e cosa non avrei più voluto fare. Per questo motivo credo che sia I predatori che Enea parlino entrambi di gioventù. Il secondo forse anche più del primo. Ne I predatori c’era una vena grottesca che in Enea viene meno. È vero, accadono cose più “incredibili”, ma sono tenute insieme da un registro più realista. Penso perciò che il percorso che ho fatto non è stato solo di crescita, quanto di rifinitura. Enea è più raffinato, anche se rimango un grande fan de I predatori.

Anche lei è fan de I predatori?

Giorgio Quarzo Guarascio: Lo conosco molto bene. L’ho visto sicuramente più volte di Enea. L’ho studiato, messo in pausa, ho mandato indietro scene che mi piacciono. L’ho fatto per prepararmi per Enea, come se potesse entrare a far parte del mio inconscio. È un film che ho potuto manipolare. Con Enea non mi è stato ancora possibile, al momento l’ho visto solo una volta sul grande schermo.

Piacerà più Enea de I predatori?

P.C.: Forse le opere prime stanno più simpatiche. Chi al tempo non apprezzò I predatori oggi quasi lo apprezza. Mentre so di gente che dice di schifare già Enea senza averlo ancora visto. Sarà che I predatori andava in una direzione meno ambiziosa, sarà per la sua aria bizzarra.

Anche I predatori era ambizioso.

P.C.: Ma c’erano momenti meno seri, nonostante non creda che il mio primo film sia comunque una commedia. Sono entrambe storie che ho scritto relativamente da giovane e che ho realizzato perché potevo. E ci sono riuscito. Come quando mi dicono che faccio film generazionali. Sono tutte conseguenze.

Però è, ad ora, un punto di riferimento in quando autore generazionale.

Ho trovato una posizione, che è il poter realizzare le opere che scrivo, quindi è normale che il punto di vista sia di un ragazzo della mia età. Se devo trovare il fascino della mia generazione è il non avere un obiettivo storico comune. Il che ci porta da una parte a scialacquarci su un’amaca e dall’altra a credere che tutto sia possibile. Perché non si sa bene quello che potremmo fare. Non si sa bene quello che potremmo raccontare. Non è tutto bianco e tutto nero. Allora possiamo fare e essere qualsiasi cosa.

Una scena di Enea di Pietro Castellitto

Una scena di Enea di Pietro Castellitto

Parlerà pure di giovinezza, ma Enea è un film anche sulla morte. Che si diventi grandi proprio quando si capisce che si muore?

G.Q.G.: È la domanda che mi tormenta da quando sono piccolo, da quando mi sono reso conto che mio padre poteva morire. Magari non sono diventato grande quando l’ho capito, ma di certo ho cominciato a crescere. E la morte è diventata così un pensiero che mi ossessiona, che cerco di sublimare facendo arte. Scrivendone cerco di isolarla. Si può fare ironia o non ironia sulla morte, ma si deve tenere sempre a mente che è là, ad aspettarci.

P.C.: La morte è come Babbo Natale. Sono quelle cose che quando sei piccolo, non si sa perché, ma speri che siano o non siano reali. Quindi ci speri che esista la possibilità di non morire. Esattamente come speri che esista Babbo Natale. E sono anche i grandi ad alimentare questa fantasia. Ti dicono: tu sei piccolo, non ti succederà niente, non morirai. Ma in realtà il bambino sa che che morirà, ad un certo punto lo capisce. Come comincia a capire che Babbo Natale non esiste.

E come per ogni tensione di morte, il corrispettivo è un forte sentimento d’amore. E Enea, a suo modo, è anche un film sulla speranza di romanticismo. Che i giovani d’oggi non siano così cinici come dicono e abbiano davvero bisogno d’amore?

G.Q.G.: Ne abbiamo un profondo bisogno. Siamo una generazione ipercinica, proprio perché non sono riusciti a darci affetto. C’è necessità di innamorarsi, ma non sappiamo come farlo. Anche nel film si vede bene.

P.C.: Le persone libere tendono ad amare più delle persone ideologiche. Nel corso del film Enea si innamora più volte e si perde in tutte le derive che porta l’amore, compresa la sua violenza. Anche nell’amore, nelle generazioni di oggi, non c’è un obiettivo comune. Non si sa chi o cosa bisogna punire. Allora ci si odia tutti un po’ di più, in maniera irrazionale. Noto un odio fra i giovani che riscontro spesso, ma al contempo un’imprevedibilità che può generare anche amore.

Una cosa che rimane intima, personale, segreta. In fondo il libro del personaggio di Giorgio Montanini, Oreste Dicembre, è la storia di un criminale dal titolo Torneranno i baci. Gli stessi che, nel film, vengono occultati.

G.Q.G.: E non è la sola cosa. Hai notato che, oltre ai baci, nel film non si vedono nemmeno i social? Anche i telefonini sono più o meno omessi, l’unico accenno di tecnologia sono le AirPods del protagonista. Prima erano molto più presenti in sceneggiatura, poi sono stati tolti quasi del tutto. E visto che abbiamo parlato fino ad ora di autore e film generazionali, trovo sia un pregio il levare un elemento così brutto della nostra generazione.

P.C.: È perché Enea fa nella vita quello che gran parte della nostra generazione ha il coraggio di fare solamente sui social.

Ha tenuto una conversazione col premio Oscar Jane Campion su La Lettura. La regista ha dichiarato di aver amato Enea. Come la fa sentire ricevere un simile attestato di stima?

P.C.: È un grande onore. È una delle mie registe preferite. Prima dell’endorsement pubblico, e dopo la presentazione a Venezia, mi ha voluto incontrare in un bar di Roma, dove stava casualmente alloggiando. Ero pieno di imbarazzo nel sentirla parlare in maniera così bella di Enea per mezz’ora. A un certo punto le ho chiesto se potevamo cambiare argomento e concentrarci sui suoi di film.

Lo ha colto nel segno?

Totalmente. Sai poi qual è la cosa bella? Che sia un film, un libro o una canzone, in quel rimpallo che si crea tra chi l’opera la crea e chi la fruisce, in quella corrispondenza, si generano nuove maschere. Qualcuno dice una qualcosa che poi rimbalza e crea una nuova percezione. E le intuizioni che mi ha dato hanno arricchito ancora di più il film ai miei occhi. Pensare che qualche critico, durante la Mostra di Venezia, era convinto che a Jane Campion non sarebbe piaciuto. Scrissero proprio così: è un film che a Jane Campion non piacerà, speriamo che illumini la giuria e la conduca sulla retta via.

La colonna sonora del film è ottima e su tutte svetta Spiagge, vero leitmotiv del film. Perché proprio Renato Zero? E com’è re-interpretare una sua canzone?

G.Q.G.: Non lo ascoltavo prima, mi è cominciato a piacere nello stesso periodo in cui Pietro mi ha chiesto di fare il film e di cantare la sua canzone. All’inizio non conoscevo questo lato più sentimentale dell’artista, lo abbiamo tutti nella mente e nelle orecchie mentre si esibisce con la più eccentrica Triangolo, ma ad oggi quando lo sento cantare e quando ascolto Spiagge mi emoziono tantissimo.

P.C.: Renato Zero è il dio della nostalgia. Ne I migliori anni della nostra vita c’è tutto. È l’ultimo dei grandi. È il talento che appartiene al ricordo, alla storia di ciascuno di noi. E questa canzone non so perché l’ho sempre amata particolarmente, ma mentre l’ascoltavo… Sai che non c’è un motivo preciso? Un ricordo di infanzia? Non lo so. So che anni prima, sentendo Spiagge in una playlist, la considerai una canzone minore, invece è stata tra le dieci hit più famose in Italia degli anni ottanta. E poi l’ho cominciata a storpiare. È per questo che si trova nel film, per la scena finale in cui il personaggio di Valentino gli cambia le parole. Quando però era il momento mi sono reso conto che doveva essere la colonna sonora della pellicola. Di questa surreale, anti-social e simbolica storia.