Ci sono tante maniere per fare un film sulla Resistenza. A volte non facendolo affatto. Prendendo degli elementi del fascismo e mettendoli al centro del racconto, trasformandoli e prendendoli in giro. Una tendenza appartenente più al cinema contemporaneo che a quello del subito dopo guerra, il quale ha dovuto metabolizzare le nefandezze attraversate sotto le armi, e che ha cercato solo in seguito di contrastarle mettendo al centro l’ironia, altra maniera per distruggere il male – in fondo, se ci pensiamo, anche l’It di Stephen King veniva annichilito dalle risate.
È perciò nota la scia dei film, tra storia e dramma, che da Roma città aperta sono passati per Il generale della Rovere e hanno contraddistinto l’iniziale maniera in cui parlare degli effetti, delle conseguenze e delle ricadute di un fascismo che se n’era andato (o meglio, nascosto, visto i rigurgiti che tendono ad uscire tutt’oggi) e che lasciava l’Italia con una ferita in pieno petto tra racconti strazianti e trauma della seconda guerra mondiale.
Roberto Rossellini, in questo, fa la doppietta. Non guarda infatti solo alla condizione italiana tramite l’opera con l’indimenticabile Anna Magnani – che cade, morente, a via Raimondo Montecuccoli, zona Prenestino-Labicano, irriconoscibile ora tra gli alti palazzi moderni, ai bordi della Tangenziale, per una sequenza immortale per il neorealismo: due anni dopo, nel 1948, cerca di espandere il proprio sguardo spostandolo sulle macerie di Germania anno zero, paese alleato, anche lui perdente, che continua a cadere nel vuoto.
Resistenza, post-guerra
Non solo i maestri, anche i neofiti vollero da subito scontrarsi con i delitti di un conflitto mondiale imperante, tanto che nel 1955 Francesco Maselli, che avrebbe poi diretto l’adattamento da Gli indifferenti di Alberto Moravia, scelse di debuttare al cinema con il racconto di una partigiana e di un gruppo di giovani pieni di ideali nel 1943, condotta verso la sua tragica fine nell’opera Gli sbandati.
Se Magnani fu un volto della Resistenza neorealista, altri “divi” cominciarono a volersi cimentare con la Storia da poco trascorsa, anche chi ne poteva sembrare il più possibile lontano. Alberto Sordi ne fu protagonista, inatteso e versatile. Da una parte, nel 1960, si fa dirigere da Luigi Comencini per l’istantanea dell’armistizio post 8 settembre 1943, con l’attore che si trasforma nel dubbioso Sottotenente Innocenzi per Tutti a casa.
Mentre l’anno dopo compie il vero salto drammatico con Una vita difficile di Dino Risi, in cui l’ex partigiano Silvio Magnozzi si ritrova a dover confrontarsi con una modernità dolce-amara, di certo libera, ma non per questo vicina ai valori che mossero la lotta rivoluzionaria di cui fece parte.
La visione della Resistenza, dunque, viene scavata permettendo di trovare altri anfratti in cui indagare il periodo attraverso la lente del cinema. Il riconoscersi in valori del passato, il cimentarsi con le crepe di un paese che era stato martoriato, ma anche salvato alla fine della seconda guerra mondiale, comincia a influire sulla psiche dei personaggi, smagnetizzando la loro bussola morale. O aggiustandola.
Gli effetti e le conseguenze della Resistenza
Cos’è infatti Il Conformista di Bernardo Bertolucci se non proprio il passaggio da una visione fascista ad una partigiana, che evidenzia gli sbagli fatti dall’Italia e il dover cercare di risorgere dalle proprie efferatezze?
Jean-Louis Trintignant, nel film, è il conformista per antonomasia, se non fosse che amore, intelletto e studio del sé ne compromettono gli insegnamenti impartiti dal regime, arrivando finalmente a una liberazione – che è però anche confusione, nel momento in cui si comprende di essere stati fino a quel momento dalla parte sbagliata della storia.
Ben diverso dal pragmatismo che sempre Bertolucci metterà in pratica nella sua magnum opus, le due parti di Novecento in cui viene persino replicato Il quarto stato a richiamare una classe di operai e cittadini esclusa per anni dalla lotta, che avanza in cerca di riscatto.
La presa di coscienza della condizione sotto il regime fascista, come ne Il conformista, torna nei titoli più disparati, dall’incertezza che diventa convinzione nel voler schierarsi “contro” di L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo nel 1976 a Libera, amore mio! di Mauro Bolognini del 1973.
In quest’ultimo il regista dirige una Claudia Cardinale pronta a scendere in piazza per un racconto sul finire degli anni ’30 con protagonista Libera – nomen omen – figlia di un anarchico esiliato dal fascismo a Ustica. Un esempio di protesta, di intraprendenza e di forza. Un cinema che mostra anche il ruolo fondamentale delle donne nel periodo di lotta per la Resistenza.
Libri, musical e parodie
Tanta, poi, la letteratura. E tante le trasposizioni. Come per lo spunto autobiografico di Renata Viganò per L’Agnese va a morire di Montaldo. Passando per Luigi Meneghello e Daniele Luchetti, col regista che nel 1998 si avventura sull’Altopiano di Asiago col protagonista partigiano Stefano Accorsi, il combattente Gigi, che a Padova si imbatte nei nazifascisti ne I piccoli maestri.
Il Partigiano Johnny di Guido Chiesa del 2000, che porta sullo schermo Beppe Fenoglio e il suo libro su un giovane proveniente da una famiglia borghese e indeciso se prendere parte o meno alla Resistenza, per arrivare fino ai fratelli Taviani che dello scrittore hanno scelto di adattare Una questione privata. Un altro ragazzo, stavolta Luca Marinelli nei panni di Milton – nome di battaglia – che attraversa la guerra solo per poter tornare dalla sua amata.
Sebbene molti casi di film sulla Resistenza hanno tinteggiato con le più variegate sfumature le loro storie – tanto che il più grande capolavoro a riguardo, C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, rimane indefinibile se se ne vuole definire il genere o lo stile – dal 2000 in poi, dopo una gestazione di quasi cinquant’anni, era arrivato il momento per il cinema di sbaragliare le carte. Di fare opere sulla Resistenza che non dovevano per forza prendere di petto la Resistenza. Ma potevano, perché no, parodiare i totalitarismi. Ce lo aveva mostrato nel 1968 Mel Brooks con Per favore, non toccate le vecchiette e l’iconico brano Springtime for Hitler.
Allora nel 2006 ci hanno pensato Corrado Guzzanti e Igor Skofic a dirigere la parodia Fascisti su Marte, elaborazione filmica degli sketch del comico per il programma Il caso Scafroglia. Prima striscia comica dello show, poi mediometraggio passato alla 60esima Mostra di Venezia e, infine, completato per diventare un lungo.
E forse non è un caso che, quasi dieci anni dopo, un divertente mockumentary come Pecore in erba, storia di un ragazzo antisemita che, nel momento in cui scompare, diventa l’idolo delle folle, sia proprio ambientato nel 2006. Leonardo, interpretato da Davide Giordano, viene innalzato a eroe nazionale, incarnando i pregiudizi e le idiosincrasie di un paese che, a distanza di anni, deve cercare di affrontare con arguzia e ironia l’avanzare di vecchie ideologie, che si sperava fossero relegate al passato.
Supereroi e giovani, i nostri partigiani del domani
In un’epoca in cui i cinecomic hanno dominato il panorama dell’industria dello spettacolo, l’Italia ha cercato di non essere da meno. Freaks Out, infatti, è forse il primo blockbuster mai fatto sulla Resistenza. Gabriele Mainetti e Nicola Guaglianone l’hanno pensato in grande.
Al principio c’era soltanto un’idea pazza, anche un po’ confusa, sicuramente anacronistica: un nazista che su di un palco cantava Il mondo di Jimmy Fontana, mentre teneva in mano un mappamondo gigante come quello di Charlie Chaplin ne Il dittatore – di fatto il film parla di partigiani, ma non di fascisti, prendendo bensì in causa i “cugini” tedeschi.
Dal connubio impossibile, che vedrà poi il personaggio di Franz Rogowski suonare al pianoforte addirittura una versione melodica di Creep, nasce un’opera in cui i “freaks”, gli “strani”, che prendono titolo e impostazione da quelli di Todd Browning del 1932, sono supereroi della borgata capitolina che troveranno la loro liberazione – sia storica, che nell’accettarsi per come sono, soprattutto la protagonista Matilde di Aurora Giovinazzo – proprio aderendo alla lotta del gruppo guidato dal Gobbo, personaggio in parte ispirato al Gobbo del Quarticciolo, tra i rappresentanti della Resistenza romana durante l’invasione tedesca.
E, in questo marasma di ideale, battaglie e cambiamenti, dove la rotta rimane comunque la libertà, anche le nuove generazioni hanno dimostrato di saper e voler combattere per il posto che si sta loro lasciando.
A metà tra inquietudini personali (influenzate da un disturbo alimentare) e il voler avere un proprio impatto come cittadini del domani, Skam apre con un invito all’antifascismo fin dalla prima puntata della sesta stagione. Un ricordare che i giovani meritano di avere un futuro. Un futuro che deve e dovrà sempre combattere per rimanere antifascista.
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