Bella Ciao: quando la musica è storia di ogni nazione. Fenomenologia del canto che fece la Resistenza

I partigiani italiani furono autori, poeti e adattatori di tanti brani. Ne scrissero di nuovi e ne re-interpretarono di già noti, tra canzonette e cori popolari, magari storpiati nel testo per ribellarsi al fascismo oltre che con i fucili, anche con le parole. Che diventano stendardo contro il regime, unione tra sconosciuti. Veicolo di immedesimazione nell’altro, nelle esperienze comuni a tutti

“Ad un certo punto noi giovani sentiamo la necessità di creare qualcosa che riguardi noi e tutti quanti i giovani della nostra generazione, esaltante la Resistenza e aderente alla lotta che conduciamo. Sarà la nostra storia e traccerà le dure vicende della vita partigiana e gli ideali che la sostengono. Su questi presupposti Cini prende l’iniziativa e un bel giorno comincia a scrivere delle parole su un foglio di carta biancastra da impaccare. Dopo alcuni giorni la bozza è stesa. In distaccamento c’è uno studente di musica ventenne, Lanfranco, al quale viene consegnato il testo delle parole che si porta appresso durante il servizio di sentinella sul monte Pracaban. Al ritorno le note sono vergate su un pezzo di carta da pacchi”, scrive così il partigiano Carlo Domenech, riguardo la canzone Siamo i ribelli della montagna.

Non è una novità, la musica racconta la storia. Racconta generazioni, lotte e singole esistenze, e in alcuni casi, sa essere addirittura veicolo di memoria, pretesto per non dimenticare ciò che rischia di rimanere impolverato dall’inesorabilità del tempo. E il repertorio italiano, in questo senso, è pieno di canti che contribuiscono a rendere lucido il nostro passato. C’è un’importantissima eredità musicale legata alla Resistenza, che passa per i canti esplicitamente contro il fascismo fino ai racconti di battaglia tra i monti e delle vite dei partigiani.

Seduti attorno al fuoco per scaldarsi dal freddo della giornata, di guardia durante la notte o in viaggio verso nuovi altipiani. Nei quartieri militari echeggiavano canti anarchici, di stampo comunista ma anche socialista. Ogni uomo portava al fronte il proprio bagaglio, che in una situazione forzatamente promiscua come quella degli accampamenti, presto diventava elemento collettivo.

I partigiani italiani furono autori, poeti e adattatori di tanti brani. Ne scrissero di nuovi e ne re-interpretarono di già noti, tra canzonette e cori popolari, magari storpiati nel testo per ribellarsi al fascismo oltre che con i fucili, anche con le parole. Che diventano stendardo contro il regime, unione tra sconosciuti. Veicolo di immedesimazione nell’altro, nelle esperienze comuni a tutti.

Bella Ciao: il canto degli oppressi

“Una mattina mi sono alzato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao”. Mai versi furono considerati più divisivi. E mai fu più difficile capirne il perché. Bella Ciao è considerata – almeno a livello generale –  il vero e proprio canto della Resistenza al fascismo.

Ma c’è da sempre una diatriba riguardo la direzione e il senso ufficiale della canzone, che nasce addirittura dalla questione relativa alla sua origine. Per molti nacque tra i monti del nord Italia, probabilmente come prosecuzione di un famoso canto di lotta delle mondine – e a sua volta derivato da un canto piemontese e da una ballade francese del Cinquecento. Per altri, fu ispirata da una melodia yiddish registrata a fine del primo conflitto mondiale negli Stati Uniti. Ma ciò che fa di Bella Ciao il brano della lotta è proprio questo essere trasversale, perché tramandata di decenni in decenni, senza sapere come, da chi e perché.

La parola “invasore”, al centro di tutto il testo, è stata interpretata negli anni con accezioni e sfaccettature diverse: attribuita prima ai nazifascisti, poi al sistema – durante le contestazioni giovanili del 1968 – e infine agli oppressori, di qualsiasi tipo. Bella Ciao si è fatta inno mondiale di unione, e tanti sono i popoli che negli anni hanno fatto proprio il canto contro quell’”invasore” generico, che ognuno può colorare in base alla sua, di Resistenza.

Ce ne sono sicuramente tanti, di brani più rappresentativi ed evocativi della lotta nazi-fascista. Durante la guerra si considerava come riferimento musicale il canto Fischia il vento, di cui Beppe Fenoglio diceva “è una vera e propria arma contro i fascisti […], li fa impazzire a solo sentirla”, perché presenta riferimenti politici e storici ben più espliciti, ma scrive Franco Fabbri “ha il difetto di essere basata su una melodia russa, di contenere espliciti riferimenti socialcomunisti, di essere stata cantata soprattutto dai garibaldini. Bella Ciao è più “corretta”, politicamente e perfino culturalmente”.

Ecco allora che Bella Ciao diventa il canto più generico, si fa del popolo e di tutti. A gran voce, negli anni di rivoluzione che furono i Sessanta, studenti, manifestanti e “oppressi” di qualsivoglia genere intonano quelle parole, per ricordare quella lotta che fu di tutti, anche di chi non la visse di persona.

Le re-interpretazioni e i tanti “invasori”

Bella Ciao scorre negli anni nei vasti e variegati repertori di numerosissimi artisti importanti. La rifà (quasi in chiave mazurka) Giorgio Gaber, Milva la porta in tv nella versione delle mondine, Claudio Villa la rende swing e De Gregori la cita ne La Storia, che “siamo noi padri e figli, siamo noi Bella Ciao che partiamo”.

Evidenza del fatto che, di pari passo con le lotte politiche, con le crude vicende sociali che annebbiano l’Italia e il mondo, Bella Ciao puntualmente ricompare, caricata di significati inediti ma sempre validi.

In Italia si afferma la celeberrima versione dei Modena City Ramblers, quel combat folk inteso come arma sonora di lotta. Negli anni la riprende il regista serbo Emir Kusturica, con la No smoking Orchestra, come canto di protesta dopo la guerra in Bosnia ed Erzegovina. Mercedes Sosa la regala alla sua Argentina fatta di corruzione, violente rivolte e golpe popolari. E poi, quell’invasore prende un volto ancora nuovo, associandosi alle truppe fasciste di Francisco Franco, nella riedizione punk-metal del gruppo spagnolo Boikot, al grido di “No pasaràn!”.

E forte sempre quello spirito di unione, che fu il primo a darle vita, Bella Ciao è cantata dal popolo a Erdoğan, nella piazza Taksim, per rivolta verso un governo che abusa della propria forza e in ricordo delle vittime del parco Gezi. La cantano Francesco Guccini – che la dedica alle donne iraniane e cambia la parola invasore in oppressore “perché in Iran non sono stati invasi, ma oppressi” – e le strade di Roma e Milano, che annullano le distanze a ottobre 2023, durante alcuni tra i primi comizi pro-Palestina.

Come ogni brano universale, il canto di rivolta diventa anche mainstream, in primis per la presenza nella colonna sonora de La Casa di Carta. La serie, che all’uscita su Netflix, nel 2017, totalizzò un record assoluto di visualizzazioni, ha dato adito a remix e versioni techno, rendendo Bella Ciao nota ancor di più alle nuove generazioni. Sì, apparentemente scardinandola dal suo valore vitale, ma allo stesso modo beneficiando di quella possibilità di interpretarla come un canto di lotta. In ogni sua accezione. Ecco allora che incidere – ancora, di nuovo e ancora – questi canti equivale a incidere non solo la testimonianza diretta del fascismo e un’esortazione lampante a contrastarlo, ma anche uno stralcio di storia quotidiana. Un diario partigiano fatto da migliaia di note, che ogni venticinque aprile – e non solo, auspicabilmente – ci permettono di sentire che alla fine, il vento fischia ancora.