Domenico Iannacone, il ritorno del “marziano” su Rai3: “Le storie vere non devono essere contaminate dalle parole vuote”

“Non nasco con l'idea della televisione, nasco con l'idea della parola. E benché malconcio, il servizio pubblico deve continuare ad essere un faro. Se noi abdichiamo a questo, vuol dire che l'informazione diventa totalmente manipolabile”. Dopo un’assenza dalla tv di due anni e mezzo, Che ci faccio qui torna su Rai3 in tre prime serate, per mostrare storie già scritte ma bisognose di essere raccontate. L’intervista di THR Roma

È un racconto per certi versi neorealista, quello di Domenico Iannacone, che si focalizza sulla parola, ma non ne abusa mai. Attinge al cinema e alla capacità di questo di sfruttare anche la calma e i silenzi, in una cronaca essenziale di realtà misconosciute e contraddizioni della condizione umana, dove il giornalista è solo il mezzo di comunicazione, mai il protagonista alla pari del racconto.

Dopo un’assenza dalla tv di due anni e mezzo, colmati con il teatro, mezzo della “libertà di espressione” per antonomasia, il suo Che ci faccio qui, prodotto da Ruvido Produzioni, torna su Rai3 in tre prime serate, ogni giovedì fino al 13 giugno, per mostrare storie già scritte ma bisognose di essere raccontate. Iannacone torna in luoghi già noti per documentarne l’evoluzione, ma anche l’involuzione. Per continuare, in un periodo particolarmente infausto per il servizio pubblico, ad essere un amplificatore di storie, a portare chi guarda a empatizzare, comunicare ed entrare in contatto con chi si racconta. In quello che, poi, in fine dei conti, è l’intento ideale dell’informazione.

Com’è stato il ritorno in televisione dopo questi anni di assenza?

L’ho percepito con forza questa volta, forse perché tornavo. Nell’assenza, abbiamo sempre nostalgia di alcune cose. Ieri sera me ne sono tornato a casa e ho rivisto la puntata da solo, cosa che non faccio spesso. Ho avuto una sorta di rinculo, come qualcosa che ti torna indietro sotto forma di emozioni, perché dietro c’è un’umanità che in questo periodo non vedo più così presente. È stato emozionante rivedere un modello televisivo che è completamente scomparso dai radar.

Un modello televisivo in cui, come nel suo caso, il giornalista è secondario a favore del racconto?

Esatto. È così perché questa è la mia idea di televisione. Devo essere elemento reagente, ma non devo avere il sopravvento su nessuna cosa. È la storia che deve avanzare, tant’è che io faccio pochissimi speech, utilizzo pochissimi raccordi, perché credo che la storia abbia un valore intrinseco, che non deve essere contaminato dalle parole vuote.

Come nasce la sua vocazione per il giornalismo, per l’inchiesta?

Credo di aver avuto tante contaminazioni nella vita, sono nato tante volte dal punto di vista della comunicazione. Da ragazzino volevo fare il giornalista, però mi piaceva molto la poesia. Ho conosciuto i grandi poeti del Novecento Italiano da giovanissimo. Sono stato pubblicato da Amelia Rosselli, in una sua rivista, e poi lì, in una forma di declinazione continua, ho utilizzato la parola come mio elemento di esternazione.

Sono finito in periodici, poi in quotidiani, poi sono passato per caso in una televisione in Molise che era vicina al quotidiano con cui collaboravo, e da lì poi non me ne sono più andato. Ho amato molto il cinema, che è una fonte di ispirazione continua, ma è come se avessi tante anime. Non nasco con l’idea della televisione, nasco con l’idea della parola. Sulla parola, poi, ho elaborato il mio percorso formativo.

I suoi programmi sono in effetti un po’ una crasi di tutte queste anime. Il racconto di certe storie dall’interno veicola anche il cinema, seppur involontariamente.

Mi fa molto piacere che abbia colto questa prospettiva, che è legata a un’idea dell’immagine che deve essere nobile. Io credo che la televisione abbia un compito, e dev’essere fatta di parole e di immagini, altrimenti faremmo la radio.

Le immagini non devono essere sacrificate. Devono essere onorevoli, perché il racconto a volte finisce per intaccare l’anima delle persone. Più si nobilitano le immagini, più si protegge anche la dignità di chi si racconta.

Crede che la preservazione della dignità delle realtà raccontate sia proprio il punto cardine delle narrazioni di Che ci faccio qui?

Credo di sì. Non c’è mai pietismo, anzi. La cosa interessante è che c’è un ribaltamento delle possibilità: dove apparentemente c’è disperazione, improvvisamente, per una questione legata alla forza della testimonianza, si accendono dei fari incredibili. Nella puntata di ieri sera abbiamo mostrato la storia di Ali. Era come se lui scrivesse un manifesto politico della condizione dell’immigrato. Con parole dolci e sussurrate.

Non c’era violenza, non c’era rivalsa, non c’era aggressività, c’era la sua condizione che veniva fuori in maniera dolce. Per me quello è un modo ideale per raccontare. Credo di aver fatto una puntata fortemente politica, il che mi permette di raccontare e di raccogliere le istanze di chi non ha voce.

Istanze che vengono raccolte anche attraverso le pause e i silenzi, senza spiegazioni inutili o rumori perpetui. Ma crede che ci sia ancora spazio per questo in un’epoca storica fatta sempre più di velocità, di suoni e reazioni continue?

Quando ho iniziato a dire “che cosa posso fare per essere coerente con le mie idee?”, mi sono detto “posso rallentare”. È una scelta che ho fatto tanti anni fa, e non l’ho mai abbandonata. I miei tempi televisivi sono dilatati, perché per me la rappresentazione televisiva è la rappresentazione della vita, e nella rappresentazione della vita non possono che esserci la parola e la pausa. E la pausa ha lo stesso valore della parola stessa. Non si può omettere.

Ecco perché, forse, il mio racconto si avvicina un po’ al cinema. Perché nel cinema ci sono le pause. La televisione se n’è dimenticata, perché ha preteso di raccontare tutto in velocità. Ma quando tu racconti in velocità spesso perdi per strada delle parti importanti, essenziali del racconto.

Si è mai chiesto “che ci faccio qui?” anche lei? Nell’ambito di un certo tipo di giornalismo e televisione focalizzati perlopiù sullo scandalo e sul pietismo.

Io mi sento un po’ marziano a volte. Sono stato due anni e mezzo quasi fermo e poi sono tornato in tv. In questo tempo ho visto con un po’ di distrazione la televisione, e mi sono reso conto che è come se fossi stato una specie di naufrago su una barca che andava verso una deriva, perché piano piano ho visto allontanarsi anche tutti i miei modelli televisivi. Ora c’è molta omologazione televisiva. Quello che diceva Pasolini tanti anni fa oggi è arrivato a un compimento totale. La televisione che imbonisce, che martella, che racconta sempre lo stesso fatto, che non ti fa ragionare, la stiamo sperimentando in questo periodo.

Ecco perché mi sento un po’ straniato. È chiaro, però, che per mantenere viva questa mia televisione io non posso tradirla, quindi riproporrò il mio metodo. Se poi la televisione mi riterrà non più adatto cercherò dell’altro.

In questi due anni ha sperimentato il racconto d’inchiesta anche tramite il teatro.

Ho fatto una specie di resistenza civile, chiamiamola così, attraverso il teatro. Volevo che questo modello non fosse morto, che il racconto empatico, in profondità, non perdesse forza. Ho fatto cinquanta repliche di Che ci faccio qui in scena. Nel momento in cui la televisione non mi stava dando spazio mi sono detto “va bene, allora vuol dire che lo spazio me lo prenderò altrove”.

Mi prendo uno spazio libero, il palcoscenico, che oggi come oggi ritengo sia il punto esatto su cui uno può lavorare in piena libertà. Sei tu di fronte al pubblico, non ci sono schemi, non ci sono paletti, non ci sono schermi. Sei nudo e il pubblico sta lì davanti a te, che sei solo quello che sei. E questa è esattamente la mia idea di come si raccontano le storie.

Il teatro è un mezzo ancora più forte della televisione?

Oggi posso dirle che la mia forza espressiva di ritorno in televisione in buona sostanza deriva dalle energie che ho attinto in questi mesi a teatro.

Domenico Iannacone in Che ci faccio qui

Domenico Iannacone in Che ci faccio qui

Dopo tanti anni di studio delle realtà marginali, arriva un punto in cui ci si capacita delle discrepanze del mondo? O il suo lavoro continua a stupirla?

Esiste un meccanismo che mi dà la possibilità di creare una specie di ribellione. Prima che lei mi chiamasse, stavo proprio guardando le già molte proposte di aiuto ai migranti che abbiamo mostrato ieri sera.

Allora non mi abituo, perché mi sono imposto di una regola. Il giorno dopo ogni trasmissione cerco di andare a salvare quelli che ho incontrato, di non lasciarli alla pura e semplice testimonianza. È un modo per dire “abbiamo raccontato le storie in televisione. Però adesso agiamo”. Ecco, per me quello è una specie di antidoto all’assuefazione del dramma in generale.

Nel 2024 la televisione è ancora un mezzo efficace per rendere visibili realtà invisibili?

Per come la intendo io sì. Io ho sempre fatto così in questi anni, ed ho fatto tantissimo. Ho fatto tutto in silenzio, non ho mai fatto le cose plateali, in cui poi uno si mette la targhetta sul petto. Mi interessa che si risolvano i problemi. Poi la gratificazione è altra. La gratificazione è sapere che un gruppo di migranti è potuto tornare a casa, che qualcuno ha avuto una casa. Queste cose mi permettono di mantenere una specie di distanza minima con l’umanità, di non perderla mai di vista.

In un momento di cambiamenti e forti critiche per la Rai, Che ci faccio qui è una testimonianza di tv diretta, che sa trasformare la visibilità in aiuto concreto.

Io credo che il servizio pubblico debba mantenere alto questo concetto e non lo debba mai disattendere. In questi due anni e mezzo di assenza ho avuto altre offerte, però mi sono detto “sono ventitré anni che lavoro a Rai3, seppur da esterno. Ventitré anni in cui ho lavorato per strisce di approfondimento, talk show, nei miei programmi. Mi sono detto: “Ho potuto esprimere anche quello che mi ha permesso di raccontare il mondo, le istanze della gente. Perché dovrei disattendere”?. Io credo che ancora oggi, benché sia malconcio, benché ci siano tutti questi problemi, il servizio pubblico continui ad essere una specie di faro. Se noi abdichiamo a questo, vuol dire che l’informazione diventa totalmente manipolabile.

Il futuro dell’informazione lascia ben sperare, dunque?

Nel servizio pubblico ci dev’essere una varietà di proposte, e tra queste anche il lavoro di approfondimento che faccio io insieme ad altri colleghi. Entrare dentro le case, raccontare quello che succede, guardare il mondo e la vita in generale.

Ho subito la negatività di due anni e mezzo di assenza. L’ho patita in silenzio, senza fare proclami, senza stracciarmi le vesti. Ma malgrado tutto, ritengo che questo sia ancora un avamposto da preservare.