Margreth Olin: “Con La canzone della terra mostro che c’è speranza. Ma bisogna ascoltare la natura per continuare come specie”

La regista del documentario selezionato dalla Norvegia per la cinquina degli Oscar come miglior film internazionale è in sala dal 22 aprile in coincidenza con l'Earth Day, mentre attende il debutto negli Usa a maggio. Una storia tra paesaggi e famiglia: "I miei genitori mi hanno insegnato come preservare il pianeta". L'intervista di THR Roma

Ogni stagione ha il suo suono. Così come ogni elemento della natura. Lo scroscio dell’acqua, lo scricchiolare dei ghiacciai, il volare delle foglie che seguono la scia del vento, a sua volta canterino anche lui. Immergersi nei paesaggi incontaminati è spesso la maniera migliore per mettersi in ascolto di una vegetazione in cui risuona il cuore pulsante della terra. Altre volte possono essere anche utili dei microfoni appositi, come gli idrofoni utilizzati da Margreth Olin sotto i ruscelli della valle in cui è nata, nell’entroterra della Norvegia.

Non è un caso che, racconta la regista e sceneggiatrice, il documentario che mette a parallelo la storia di quel locus amoenus e la storia della sua famiglia, l’aveva prima “sentito” che immaginato, vedendolo con le orecchie e non con gli occhi. Altrettanto lo è il titolo scelto per l’opera, La canzone della terra – in originale Songs of Earth (che approda il 22 aprile in sala, non a caso in coincidenza con l’Earth Day). Invito a mettersi in ascolto di cosa vuole dirci il nostro pianeta, nella speranza di saper trovare la maniera di intonarci a colei che ci ospita in questo che chiamiamo mondo.

Microfoni speciali, ma anche un’orchestra che ha trovato un tappeto di suoni a cui abbinare la propria colonna sonora, composta da Rebekka Karijord. Un’amalgama di crepitii e note, di alberi che fischiano e orchestre che suonano. Una sinfonia che diventa un tutt’uno, prima a livello uditivo, poi anche visivo.

Tra favola e realtà

“Nove fotografi hanno collaborato per realizzare il documentario”, racconta Olin sul titolo selezionato a concorrere come papabile opera della cinquina del miglior film internazionale agli Oscar 2024 (“Ma quest’anno la competizione era davvero dura”). Nove fotografi chi incentrato sulla natura selvatica, chi sugli animali, chi ancora sull’acqua e chi gestiva le riprese dei campi totali.

L’intera infanzia della regista racchiusa in un documentario, che segue madre e padre nel ciclo di un anno, dalla primavera all’inverno, tornando al punto di partenza.

“I miei genitori mi hanno donato il regalo più importante che potessero mai farmi: mettermi in contatto con la natura. Quando chiedevo a mio padre di raccontarmi una storia mi diceva sempre: usciamo, facciamo una passeggiata. Per lui stare in mezzo al verde era già una fiaba. Il contorno delle montagne, le tane degli animali. Mi chiedeva cosa vedevo in quei paesaggi che mi circondavano e questo ha nutrito la mia consapevolezza, oltre che l’immaginazione”.

Un'immagine del documentario La canzone della terra

Un’immagine del documentario La canzone della terra

Influenzando anche il rapporto con gli animali: “Ho avuto un cavallo per tanti anni. A dieci ho cominciato a prendermene cura nella stalla, a diciassette è diventato mio. È cresciuto con me, non si può immaginare la fortuna di essere una teenager con un amico simile. Mi ha insegnato molto sulla fauna che abbiamo attorno, su come prendercene cura e salvaguardarla”.

Attenzione che da sempre pongono anche i produttori esecutivi del progetto, Wim Wenders e Liv Ullmann, il primo già collaboratore di Olin da tempo, mentre l’attrice svedese ha dato la spinta al documentario per la sua promozione, anche per il lancio mondiale e gli Oscar.

La canzone della terra: c’è ancora speranza

La natura e la famiglia sono così inestricabilmente uniti in un documentario in cui è la speranza il sentimento che spinge verso il domani. A rappresentarlo è il seme che pianta il padre della regista a fine film. Un invito alla prosperità, un’eredità per chi verrà dopo.

“Sebbene sapevo che La canzone della terra avrebbe parlato a suo modo di cambiamento climatico, ho sempre avuto la consapevolezza che dovevo raccontarlo dal mio punto di vista, dal mio angolo di mondo”, spiega Olin. “Tornare a casa ci fa capire che siamo parte di un mondo che è cruciale iniziare a preservare. Dobbiamo ritrovare la maniera di unirci alla natura per permettere di continuare come specie”.

Tentativi che, ovviamente, possono trovare spazio solo se si acquista coscienza di ciò che sta accadendo. “Negli ultimi cinquant’anni il 70% degli animali selvaggi e dei rettili è scomparso. Dobbiamo agire, velocemente”. E mentre il messaggio si diffonde in ogni parte del globo, col documentario in giro per il Giappone, l’Indonesia, l’Italia e prossimamente gli Stati Uniti, Margreth Olin ne elabora il significato personale che ha avuto la sua distribuzione in tutto il mondo.

“Mia madre ha avuto un infarto il giorno della première. Eravamo in un luogo bellissimo, con tantissime persone. Due giorni dopo ci ha lasciati. Lo dice anche nel documentario: non avrebbe mai sopportato di sopravvivere a mio padre e abbiamo sempre pensato che fosse giusto rispettare questa volontà. Nonostante lo shock, portare in tour La canzone della terra mi ha aiutato a salutarla. E mi ha messo di fronte a quello che mi hanno insegnato da sempre, ossia che la vita è davvero più grande della morte”.